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Una conquista di civiltà

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di SERGIO TATARANO

Il primo dicembre di 40 anni fa il Parlamento italiano approvava la legge sul divorzio, la cosiddetta Fortuna – Baslini, dal nome del duo socialista e liberale che aveva presentato il disegno di legge.

A rileggerli oggi, i numeri fanno impressione: 325 sì, 283 no alla Camera, 164 sì e 150 no al Senato. Una conquista di civiltà che appartiene a tutto il popolo italiano, se è vero che quella legge fu confermata da un referendum che vide un voto favorevole superiore al 60% e dunque assolutamente trasversale e che anche gli oppositori di allora hanno regolarmente usufruito delle facoltà riconosciute da quella legge.

Ed è ancora di più patrimonio di tutti noi in quanto appare ridicolo l’argomento che all’epoca si sollevava affermando che un simile dramma sociale –quello della felicità di migliaia di famiglie- fosse il simbolo di una “lotta borghese”. Un milione e 700 mila nuove famiglie nate: questo il miracolo compiuto grazie a quella legge.

Una legge, comunque, figlia del suo tempo. Oggi il gap tra Paese reale e istituzioni è di una evidenza sconfortante: il Parlamento si ostina a non riconoscere i passaggi epocali di costume che si sono realizzati, oggi si continuano a sponsorizzare LA famiglia (piuttosto che accettare le varie forme che si sono create), imponendo un solo modello, superato dalla storia e dal vissuto comune, e si evita il riconoscimento per le varie forme di convivenza; nella clandestinità migliaia di coppie che non vogliano seguire il percorso matrimoniale creato nell’immaginario collettivo; impedito è pure quell’atto estremo di amore che è la fecondazione assistita, specie se eterologa.

Ma, per restare al divorzio, i dati sono imbarazzanti quando evidenziano che su 47 Stati del Consiglio d’Europa, noi siamo 45esimi per quanto riguarda i tempi di durata del giudizio di divorzio e che per giungere alla sentenza di scioglimento del vincolo coniugale ci vogliono in media 634 giorni, contro i 321 della Germania, i 325 del Portogallo e i 447 della Spagna. Di certo, la obbligatorietà dei 3 anni di separazione (prima dell’87 erano addirittura 5) necessaria per poter divorziare rappresenta una forma di pressione nei confronti dei due soggetti che, specie se privi di prole, si dovrebbe presumere siano in grado di autodeterminarsi; dunque, si tratta di un vincolo severo e paternalistico, illiberale e da Stato etico, inutilmente punitivo nel momento in cui non attribuisce alcun riconoscimento alla volontà dei coniugi che, per esempio, decidessero di percorrere strade diverse senza dover necessariamente chiudere a “pesci in faccia”.

Insomma, il sistema attuale appare da superare per poter compiere un nuovo passo verso un altro traguardo fatto di responsabilizzazione e non di imposizione; quello appunto del “divorzio breve”, che sarebbe finalmente e sempre più testimonianza di un modello matrimoniale fondato su un solo grande collante: l’amore tra le persone.

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo