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“Ruskij mir”, “passionarmost”, “peacekeeper”, ecco i vocaboli di Putin

Analisi delle parole chiave del conflitto Russia-Ucraina, per inquadrare meglio le dinamiche fondamentali di quanto accade in queste ore sotto il punto di vista ideologico, demagogico, retorico.

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Nella foto, il presidente russo Vladimir Putin. Immagine presa da Wikimedia Commons, pertanto di dominio pubblico.

Di Alessandro Andrea Argeri.

“Ruskij mir”, Passionarmost”, “peacekeeper”, sono questi i vocaboli fondamentali sui cui sono impostati i discorsi alla nazione degli ultimi due mandati di Vladimir Putin. Il 24 febbraio 2022, in meno di un’ora lo Zar ha concentrato in un solo colpo, in una follia sanguinaria, decenni di rancori, di discriminazioni, di propaganda americana, mentre più o meno tutti noi, arroccati nella “parte tranquilla del mondo”, credevamo scongiurato il pericolo di una guerra alla quale non siamo mai stati preparati, proprio come accadde esattamente due anni fa, quando letteralmente “scimmiottavamo” il rischio di una catastrofe sanitaria legata a un virus potenzialmente mortale.

Viviamo i giorni più bui della storia europea. Dopo un lungo periodo di pace, mai come in queste ore abbiamo la percezione di un conflitto armato tanto vicino a noi, praticamente davanti alla nostra porta di casa, potenzialmente capace di mettere in crisi i valori, gli ideali, i sistemi culturali occidentali. Eppure Putin, maestro del “dividi et impera”, aveva dichiarato apertamente di voler invadere l’Ucraina, l’ha addirittura ripetuto per un circa mese nel caso qualcuno accidentalmente un giorno avesse mancato di ascoltarlo, dunque non si gli può certo recriminare di aver agito di sorpresa.

Purtroppo però è stato di parola, o meglio: dopo otto anni di tensioni in Crimea, al culmine di trentadue giorni di scambi di battute con i rivali occidentali, le necessità mediatiche, politiche, personali, perché in gioco c’è pure l’ambizione, hanno spinto lo Zar a dar credito alle minacce formulate durante le contrattazioni preliminari con l’occidente, gradualmente sempre meno velate. Agli occhi di Putin la frettolosa espansione della NATO è stato solo un pretesto fornitogli, accidentalmente o meno, dagli americani per consentirgli di compiere quanto premeditava da lungo tempo: l’attacco decisivo ai nemici esterni.

Il presidente russo, giudicato “sempre più distante dal suo Paese” dai suoi stessi membri di governo, ha sempre cercato di giustificare il suo operato all’opinione pubblica, difronte alla quale ha citato a più riprese il “ruskij mir”. Letteralmente significa “il mondo russo”, il cui significato dalle mille sfaccettature, proprio come il vasto popolo euroasiatico, poggia ovviamente su basi ideologico-culturali. Nel 2014, in occasione dell’annessione della Crimea, Putin parlò di una “nazione divisa”, nonché dell’imminente necessità di “proteggere la civiltà russa dai pericoli di forze esterne, in particolare quelli provenienti da Occidente”.

Se si accetta dunque il significato di “mondo russo”, all’interno di quest’ultimo dobbiamo allora includere tutte le popolazioni russofone: Bielorussia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Ucraina, sulle quali la “madrepatria” avrebbe il diritto “genitoriale” di esercitare il proprio potere. Dopotutto, quale altra giustificazione ci sarebbe per invadere un vicino chiaramente più debole?

Ma è veramente così? Non esattamente. Come ogni autocrate “degno di essere chiamato tale”, lo Zar non ha mancato di distorcere l’ordine cronologico degli avvenimenti. Nella sua “lezione di storia” tenuta alla nazione, Putin ha esplicitamente affermato la “non-esistenza” dell’Ucraina, quest’ultima sarebbe infatti “un’invenzione su carta dell’Unione Sovietica”. Tuttavia, secondo tale ragionamento, viene rigettata la storia della Russia stessa, anche perché Kiev è stata fondata prima di Mosca.

Ad ogni modo, Putin è stato accusato dai leader occidentali di “pensare secondo schemi risalenti al XIX secolo”: appare infatti come l’esatta antitesi del sovrano ispirato dagli ideali illuministi, i quali sono ovviamente alla base della democrazia. Pertanto niente principio di autodeterminazione dei popoli, nessuna indipendenza culturale, il diritto internazionale non ha alcun valore. Per lo Zar esiste solo l’Eurasia, abitata esclusivamente dai russi, mentre gli stranieri al di fuori sono i nemici da cui bisogna difendersi. Con il riconoscimento delle repubbliche secessioniste dunque, Putin ha tagliato i ponti con la comunità internazionale, tuttavia il suo obiettivo non sembra essere quello di voler restaurare l’Unione Sovietica, ma di bloccare la relativa pericolosità dell’espansione della NATO, per restaurarne i confini a prima del 1991, affinché la Russia sia sicura.

Potrebbe comunque non finire così. La ferma volontà di Mosca di tornare ai tempi della “Cortina di Ferro” suggerisce un’espansione dell’esercito russo verso le repubbliche baltiche ex Urss, tra cui la Polonia e la Germania est, in merito alla quale, come ha ricordato Anne Applebaum al Corriere della Sera, il ministro degli esteri russo Lavrov disse otto anni fa, durante la conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera: <<Voi sapete, vero, che la riunificazione della Germania è illegale?>>. A quel punto i tedeschi presenti scoppiarono a ridere, tuttavia ora non possiamo permetterci tale lusso.

Di mezzo però c’è anche l’ambizione personale. Mentre gli Usa sono affetti da una fobia comunista mai veramente superata nella loro cultura di massa, Putin sogna di tornare ai fasti dell’Impero russo, poiché non vuole passare alla storia come colui il quale ha concesso la perdita dello “spazio vitale” ai danni del suo Paese. In tutto questo, a perderci è l’Ucraina, una nazione relativamente giovane, costituita da un popolo indipendente tanto faticosamente quanto fieramente avviato verso la democrazia.

Arriviamo dunque alla seconda parola: “passionarmost”, il cui significato è duplice. Può indicare infatti o la “capacità di avanzare e accettare il cambiamento”, o la “resistenza alla crocifissione”, ovvero la facoltà di sopportare le sofferenze. La stessa fino a poco tempo fa noi in Italia la chiamavamo “resilienza”. Ebbene Putin l’ha più volte chiesta al suo popolo, perché lo storico confronto con l’Occidente, forse arrivato alla resa dei conti, avrà le stesse caratteristiche di una partita a braccio di ferro, dove il vincitore non è mai il più forte, bensì chi riesce a resistere meglio.

Difficile prevedere chi uscirà vittorioso, colui il quale assumerà il titolo di “peacekeeper”. Ancor più ostico è anche solo cercare di capire come si possa garantire la pace per mezzo della guerra, sebbene, col rischio concreto di ritrovarsi i missili delle basi NATO puntati costantemente addosso, nonostante le proteste, gli arresti, le petizioni, per una parte del popolo russo, quella più intransigente, nazionalista, xenofoba, Putin sia considerato veramente un portatore di pace, mentre per noi è il dittatore guerrafondaio da cui dobbiamo giustamente difenderci.

Possiamo concludere la riflessione di oggi con ancora un’ultima parola: “democrazia”, il contrario di “dittatura imperialista”. La più grande paura di Putin è la prova vivente di un’alternativa al suo modello di governo retto sulla propaganda della paura dell’”Occidente cattivo”. In Russia tutti studiano molto bene un certo Gogol, il quale ne “Le Anime Morte” scrisse una delle sue più celebri frasi: “la paura è più contagiosa della peste e si comunica in un baleno”, tuttavia bisognerebbe ricordare anche come “la sete possedere è causa di ogni male: fu per essa che accaddero tutti i fatti che il mondo chiama poco puliti”. Il progredire della democrazia europea invece smentisce platealmente la “necessità zarista” propinata dal governo di Mosca per legittimare al popolo il regime autocratico. Ma soprattutto, la presenza di russofoni democratici è la prova lampante della concreta ammissibilità storica, politica, culturale di un’alternativa al modello putiniano, al totalitarismo.

Gli Stati membri dell’Unione Europea sono chiamati alla prova decisiva per definire l’esistenza dell’Europa stessa, nonostante le divisioni interne per difendere la propria indipendenza da Bruxelles ci abbiano reso dipendenti dagli Usa per la difesa, da Mosca per l’energia. In parole povere: politiche non unitarie non solo ci hanno stretto ad impersonare la parte di attori geopolitici tremendamente impotenti, incapaci di decidere autonomamente difronte a una crisi bellica, ma ci hanno anche messo “alla canna del gas”. Basti pensare all’estrema facilità con cui la Germania si è lasciata convincere a chiudere il Nord Stream 2. Eppure l’Unione Europea è nata dalle crisi, le quali sono proprio i momenti in cui un popolo, difronte a una difficoltà comune, si riscopre tale, si unisce, si coalizza, si forma, nasce.

A tal proposito, la straordinaria partecipazione nelle piazze occidentali alle manifestazioni contro l’invasione dell’Ucraina porta a tre constatazioni: Putin non può vincere; l’Occidente è democratico; da questa esperienza la democrazia mondiale ne uscirà rafforzata. Dunque (ri)nasca l’Europa, dal fallimento si instauri più intensamente il senso democratico di ogni Stato di diritto: avvenga il progresso dell’umanità contro la regressione totalitaria.

In entrambe le foto, Bari, sabato 26 febbraio. Piazza Prefettura gremita di manifestanti per inneggiare contro la guerra in Ucraina.

(L’idea base dell’articolo di partire dalle parole russe per impostare il ragionamento è stata presa in parte da una riflessione di Paolo Valentino su “Il Corriere della Sera”, mentre le restanti riflessioni sono state formulate dall’autore del qui presente articolo.)

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).