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Conflitto in Ucraina: cronaca di una crisi d’identità, la nostra

La guerra della Russia all’Ucraina ci riguarda da vicino, non è cosa altra rispetto a noi come quella nella ex Jugoslavia ed è questa la ragione per la quale col tempo (non molto) inizieremo a  guardare alle immagini di morte che ci giungono, come ad uno scenario  possibile anche lungo le strade e nelle piazze delle nostre città.  Forse così non sarà mai, ma la sola eventualità spingerebbe molti a cambiare il proprio punto di vista anche su questioni che con la guerra hanno ben poco a che fare.

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Fino a pochi mesi fa della vita degli ucraini sapevamo pochissimo. Certo,  riconoscevamo per strada le donne venute in Italia per fare le badanti, sempre tra di loro, con quelle espressioni, i volti e le capigliature così simili, con un’idea di bello (ma anche di brutto) lontana dalla nostra, ma infondo ciò che conoscevamo ci faceva pensare a vite che con quelle di molti di noi avevano poco a che fare. Decidere infatti di lasciare la propria terra, i figli, talvolta i mariti, per andare lontano e lavorare per il tempo necessario a raccogliere il danaro necessario ad acquistare una casa nella terra d’origine, dove godersi il resto della propria vita, le faceva apparire presenze ad tempus, della cui vera esistenza avremmo saputo ben poco. Il loro provenire dall’est le accumunava alle donne russe, alle georgiane, alle rumene, giunte nel nostro paese per la stessa ragione. 

Pochissimi di noi sapevano chi fosse il presidente dell’Ucraina, che invece oggi riconosceremmo dovunque, anche se avremmo preferito ricordarlo per altre ragioni che non una guerra. 

Da poco più di un mese, tutti i giorni ormai entriamo nelle città, nelle strade, nelle case degli uomini e delle donne ucraini e ci appaiono non dissimili dalle nostre. Questo è accaduto soprattutto quando il conflitto ha avuto inizio ed i media hanno divulgato immagini di donne e bambini in fuga, non ancora toccati dalla violenza oscena della guerra. Da casa notavamo come i nostri trolley fossero somiglianti ai loro, i giubbotti ed i giocattoli per i piccoli e le strade con i medesimi negozi dai quali siamo soliti acquistare gli abiti. La solidarietà che tutto l’occidente ha espresso verso questi uomini e queste donne è stata in gran parte motivata da tale somiglianza. Abbiamo atteso così spasmodicamente ogni evoluzione del conflitto, il cui scenario è piano piano mutato. Le strade ucraine si sono infatti svuotate di ciò che le rendeva così simili alle nostre e si sono riempite di carri armati e soldati. Anche in questa seconda fase erano riconoscibili gli edifici, certo vuoti, ma intatti. A parte i carri armati ed i soldati le vie deserte potevano ricordare le nostre in una qualsiasi domenica pomeriggio ed anche quando in tv sono apparse le immagini di un uomo crivellato di colpi dagli occupanti russi perché non aveva rispettato il coprifuoco, ci siamo sdegnati ma abbiamo pensato che la normalità di quel popolo fosse ancora possibile, che non fosse stata violata al punto tale da non essere recuperabile. Sappiamo oggi che, centinaia di persone erano state già vittime innocenti del conflitto, imprigionate, torturate e violentate senza che la propaganda ne mostrasse le prove. Ci piaceva pensare che la mancanza di cibo ed acqua fosse in fondo un problema risolvibile. Insomma abbiamo com’è ovvio, letto la loro normalità con il metro di cui disponevamo, non accorgendoci che nel frattempo le nostre strade e quelle degli ucraini si erano divise e procedevano drammaticamente parallele. 

È infatti trascorso qualche tempo e le immagini delle stragi, dei corpi senza vita riversi sull’asfalto hanno cominciato ad essere trasmesse dai media ed è stato in questo momento che coloro che guardavano da qualsiasi luogo lontano dall’Ucraina, attraverso uno schermo, hanno compreso che la vita e la morte di quegli uomini era diversa dalla propria, almeno per come se l’erano immaginata. Perché morire per strada e restare sull’asfalto ciascuno di noi lo conosce come evento possibile solo nei casi di tragici incidenti stradali ed invece vie intere disseminate di cadaveri sono capaci di evocare in noi solo scene di film dell’orrore a cui la cinematografia ci ha abituati. Perché noi fossimo in grado di percepire quelle morti come vicine, avremmo bisogno di coglierne l’individualità, fatta di un nome e di un cognome, di una casa, di una storia personale ed invece tutto questo ci sfugge e cogliamo solo un dato, quello della morte di un corpo, di un uomo che non conosciamo.

Su questa guerra fiumi di parole ogni secondo si spendono. Tesi, previsioni, giudizi, alcuni sensati, altri meno si ascoltano dappertutto sebbene la totalità di essi risulti frutto di congetture, visto che allo stato attuale niente più che congetture è possibile fare. 

Esprimere una mia idea su ciò che ci attende, su quanto durerà il conflitto, sulle colpe sarebbe pertanto un’ ulteriore goccia inutile, in un mare altrettanto inutile, visto che noi tutti ci troviamo su una nave governata  da altri, di cui ci sfuggono le reali intenzioni e che non hanno alcun interesse a renderle note. Allora le sole cose che mi è dato di cogliere con un minimo grado di autenticità sono le mie reazioni. Quanto accadde nella ex Jugoslavia resta per molti un vulnus proprio per la vicinanza geografica e non solo dei nostri territori: le vittime di quel conflitto vestivano come noi ed abitavano in edifici simili ai nostri. Tuttavia noi non abbiamo conosciuto quelle violenze, né le ragioni di quell’odio insanabile. Non di rado ascoltiamo le testimonianze di donne allora brutalmente violentate, ne rimaniamo colpiti ma tanto loro quanto noi abbiamo continuato, quando possibile a vivere. La violenza della guerra ha lasciato il campo ad un nuovo tempo, nel quale ricordare troppo non è gradito. Senz’altro perché certi torti non sarebbero giustificabili e lascerebbero il posto alla vendetta. È stato sempre così. Già nella Grecia di epoca classica la questione del superamento della vendetta fu oggetto delle riflessioni dei poeti tragici come Eschilo. Eppure, nonostante i tentativi della società civile, della cultura, delle leggi, le esistenze che attraversano un conflitto conservando la vita non potranno più dimenticare ciò che hanno visto o subito e le privazioni e violenze di cui sono state oggetto. 

La guerra della Russia all’Ucraina tuttavia, ci riguarda più da vicino, non è cosa altra rispetto a noi come quella nella ex Jugoslavia ed è questa la ragione per la quale col tempo (non molto) inizieremo a  guardare alle immagini di morte che ci giungono, come ad uno scenario  possibile anche lungo le strade e nelle piazze delle nostre città.  Forse così non sarà mai, ma la sola eventualità spingerebbe molti a cambiare il proprio punto di vista anche su questioni che con la guerra hanno ben poco a che fare. Potrebbe essere un’occasione per esempio, per imparare o ricordare che le relazioni con gli altri vanno calibrate continuamente sulla base dei bisogni reciproci e che ognuno ha i propri. Che quanto abbiamo costruito dopo l’ultimo conflitto è prezioso e ci ha permesso di godere di decenni di pace, ma soprattutto che l’uomo non ha mai rinunciato alla guerra e che mai lo farà.

     Di     Rosamaria Fumarola 

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano