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È la battaglia dei libri, ma l’abbiamo già persa

Dalla rimozione di Dostoevskij dai programmi delle università all’esclusione della giuria russa dal Premio Strega. La guerra è anche culturale.

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di Alessandro Andrea Argeri

Ci si scontra verbalmente, si pubblicano post, tweet, saggi a tema attualità, i manifestanti in piazza vengono caricati dalla polizia mentre pochi violenti spaccano le vetrine. Noi in occidente combattiamo così. Si chiama “democrazia”, il metodo è quello della “dialettica”, ovvero dello scontro tra due opinioni contrastanti. Sulle prime può sembrare una follia, ma la guerra si combatte anche, o specialmente, sul fronte culturale. È dunque in corso “la battaglia dei libri”, ma l’abbiamo già persa.

“Ora bisogna qui specificare chiaramente che l’Inchiostro è la grande arma-missile in tutte le battaglie dei dotti. Esso è impiegato attraverso una sorta di macchine chiamate penne, un numero infinito delle quali viene scagliato contro il nemico dai prodi di ambo i lati con pari destrezza e violenza. Questo liquido maligno si compone di due ingredienti, Bile e Vetriolo, onde assecondare in certa misura oltre che fomentare il genio dei combattenti con la sua asprezza e velenosità”.

Così scriveva Jonathan Swift in un pamphlet satirico dal titolo “The Battle of The Books”, in cui gli scrittori moderni si scontravano con gli antichi per ottenere la supremazia letteraria nella prestigiosa biblioteca di St. James. Messe da parte le cortesie dei salotti letterari, uno scatenato Omero disarciona il favolista Perrault, il grande Cartesio viene abbattuto da una freccia di Aristotele, Torquato Tasso e John Milton si contendono il comando della cavalleria, mentre il povero Esopo cerca vanamente la morale di tutta quanta la vicenda. La rappresentazione è quella di uno scontro tra modelli: non solo il vecchio contro il nuovo, ma la nascente cultura nazionale inglese fotografata nel tentativo di liberarsi dall’influenza dei modelli stranieri per affermare una propria identità.

L’Italia si è formata prima culturalmente, poi territorialmente. Da Dante a Machiavelli, da Foscolo a Leopardi, gli intellettuali inneggiavano all’unificazione territoriale mentre i piccoli stati della penisola si massacravano a vicenda. Linguisticamente, con le “Prose della Volgar Lingua” Bembo impostava la direzione della lingua italiana sul modello petrarchesco. Politicamente, la produzione di saggi in cui si invocava un principe o un sovrano per ritornare allo splendore di Roma è incredibilmente vasta, dal “De Monarchia” a “Il Principe”. In parole povere, un popolo si forma quando un gruppo di individui condivide stessi usi, costumi, tradizioni, dunque uguale cultura.

Gli scambi culturali avvengono grazie alla traduzione, argomento già affrontato con Enrico Terrinoni in una precedente intervista. Tradotto l’autore, il nuovo modello viene importato nello Stato traducente, così la cultura si amplia, progredisce. È un trucco vecchio come il mondo. I fenici importarono il primo alfabeto dalle popolazioni indoeuropee, poi i Romani tradussero i greci per formare la “cultura di Roma”, il senso di appartenenza grazie al quale un impero tanto vasto riuscì a rimanere in piedi per mille anni.

Noi ci siamo modellati sul latino, gli inglesi hanno creato Shakespeare dai nostri stilnovisti, noi da Shakespeare abbiamo creato Pirandello, il quale a sua volta ha formato Beckett. Ancora, il nostro D’Annunzio dal loro Oscar Wilde, il loro Surrey dal nostro Boccaccio, la loro commedia romantica dalla nostra commedia dell’arte, insomma, gli scambi culturali sono capaci di influenzare la storia di un’altra nazione, quindi i suoi usi, costumi, canoni, per dirlo con una parola: la sua cultura, ancora una volta.

Certamente nel 2022 non si può più parlare di “culture propriamente nazionali”, ma per la stessa definizione di popolo siamo noi Occidentali una sola nazione. In pratica lo Stato rimane, ha solo ampliato i suoi confini, al di là dei quali c’è l’Oriente. Non è un caso si parli oggi di “Stati Uniti d’Europa”. Il sentimento europeo c’è perché sappiamo di essere uguali ai francesi, ai tedeschi, paradossalmente anche gli inglesi malgrado la Brexit (Britain-exit) si sentono vicini a noi. A tal proposito, l’enorme successo riscosso dall’Eurovision dimostra come il senso di appartenenza a un’unica cultura, dunque allo stesso popolo, sia in realtà molto forte rispetto a quanto credeva Putin.

Ebbene, l’introduzione di modelli russi in Italia ha generato, attraverso ideologie, opere, meme, o messaggi subliminali, un feroce antiamericanismo, un ancor più controverso antioccidentalismo molto simile alla sindrome di Stoccolma, pertanto lo scrittore russo non è più solo u intellettuale, ma si carica di significati, diventa il simbolo di una cultura superiore sebbene in realtà non lo sia affatto. Per Plechanov l’intellettuale doveva portare avanti gli ideali della rivoluzione dell’Unione Sovietica. Zdanov la pensava allo stesso modo, solo un po’ più esplicito, poiché inventò l’espressione “ingegnere di anime”, ovvero lo scrittore avrebbe dovuto educare alla lotta di classe. L’arte Russa è dichiaratamente propagandista. Da noi si è partiti con Tolstoj, poi con Dostoevskij. Appena prima della guerra si era cominciato col citare Gogol, ricordate il detto “nulla si diffonde meglio della paura”?

Quando la Russia invase la Repubblica Ceca, come prima operazione cambiarono i nomi alle vie. Ecco come, riporta Khundera, chi viveva in via tal dei tali si ritrovò ad abitare in “via Puskin”. Lo stesso pretesto di invasione dell’Ucraina è stato colto su basi culturali. Lavrov su rete 4 disse esplicitamente: “l’Ucraina ha smesso di insegnare la lingua e la cultura russa”, oppure “noi abbiamo invaso per difendere la minoranza russa che condivide la nostra cultura”.

Arriviamo quindi all’esclusione della giuria di Mosca dal Premio Strega. Certamente Di Maio non è uomo avvezzo alla cultura, tuttavia anche un orologio fermo due volte al giorno segna l’ora esatta. Noi italiani siamo vulnerabili alla demagogia, alla propaganda, alle influenze straniere. D’altronde, in Italia non si investe in cultura, da vent’anni la scuola ha bisogno di essere riformata perché non è più in grado di insegnare, l’editoria resiste a fatica, gli italiani radical chic preferiscono le stravaganze propagandiste condite di asterischi alla corretta comprensione della propria lingua, ovvero di quello che parlano, leggono, scrivono, pensano. Immaginate quindi se con i voti di Mosca avesse vinto il più prestigioso premio letterario italiano un romanzo scritto proprio da un filoputiniano.

Per il gusto di sentirci gli alternativi dalla mentalità aperta abbiamo citato il “Mein Kampf” quando si parlava di olocausto, elevato la cultura araba al tempo dell’estremismo islamico, nel 2015 ricordo interviste ai tg di occidentali alle prese con gli insegnamenti del Corano, mentre a venire accusato di essere troppo opprimente era il cristianesimo. Chissà come mai un italiano può avere come nemico solo un suo connazionale. Sarà per lo strano detto “l’erba del vicino è sempre più buona”, oppure perché non si conosce la propria. Ma le altre culture non si criticano per nessuna ragione al mondo, guai a toccarle! La nostra invece possiamo pure martoriarla, in fin dei conti “è solo la cultura l’italiana”, non riguarda noi italiani.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).