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L’università vale ma non attrae abbastanza

La scelta di dove studiare equivale ormai alla decisione del centro dell’impiego a cui iscriversi. L’istruzione dovrebbe formare l’individuo, eppure negli ultimi anni l’idea dominante sembra essere quella di preparare l’operaio. La società richiederebbe un cittadino capace di soddisfare entrambi i requisiti, tuttavia, nel Meridione è raggiunto solo il primo obiettivo.

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In copertina l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro (Wikimedia Commons, dominio pubblico).

di Alessandro Andrea Argeri

Quasi il 30% degli studenti universitari meridionali studia in un Ateneo del Nord, secondo quanto riportato dall’ultimo studio della CGIL. Sebbene risalga al 2018, si tratta del sondaggio più recente, pertanto può aiutarci a porre delle considerazioni sul “boom dei fuori sede”. È un’emigrazione di cervelli, una fuga intellettuale, una perdita di risorse, un danno nel Mezzogiorno di circa tre miliardi di euro all’anno di consumi sia pubblici sia privati. A parti invertite invece, la quota di studenti residenti nelle regioni settentrionali ma frequentanti le università del Sud è poco meno del 2%. Il saldo migratorio, già preoccupante, diventa ancora più grave se considerato in relazione al tasso di abbandono scolastico, salito al 13% nell’ultimo biennio. In molti casi l’università vale, ma non attrae abbastanza.

Sfatiamo un mito: sebbene primeggino nelle classifiche, le università del Nord non sono migliori di quelle del Sud, anche perché né l’agenzia nazionale di valutazione né il Ministero dell’Università sarebbe in grado di valutare correttamente l’efficacia dei corsi di studio. Il problema non sono i docenti, la qualità dell’insegnamento o la possibilità di usufruire di una determinata didattica, bensì il sistema a cui l’università è collegata. C’è infatti un forte divario nei servizi offerti all’esterno degli Atenei, campo nel quale il Meridione scarseggia. Le sedi del Nord hanno a loro disposizione intere infrastrutture, inoltre possono avvalersi di reti di raccordo con l’imprenditoria locale a noi inaccessibili, poiché le università del Mezzogiorno restano quasi completamente isolate dal mondo esterno.

In altre parole, chi si laurea a Milano anziché a Bari ha maggiore possibilità di trovare un lavoro in linea con le competenze acquisite una volta completato il ciclo di studi. Di conseguenza, gli atenei meridionali possono pure sfornare le migliori menti, tuttavia, se il Meridione non riesce a convincerle né a rimanere né ad attirarle, queste sono costrette ad emigrare, a contribuire allo sviluppo di un’altra regione, o direttamente di un altro Stato.

<<Trasferirmi a Milano è stata una delle scelte più belle che potessi fare. L’Università Bocconi offre non solo una preparazione impeccabile, ma anche numerose attività culturali, sportive, sociali e di intrattenimento. Sono continuamente stimolata e d’altronde Milano è una città ricca di opportunità lavorative e non solo. Tornerei nel mio paese d’origine? No, almeno per il momento. In futuro chissà… Una volta consolidata la mia carriera, potrei ritornare con le giuste capacità per rendere la mia terra un posto migliore>> racconta Valentina, 20 anni, studentessa di economia e management aziendale alla Bocconi di Milano.

L’emigrazione universitaria è equiparabile a uno spostamento di risorse, a causa del quale aumenta il divario tra le varie regioni della Penisola anche in termini di produttività. Il “capitale umano” conta ancora, tuttavia non viene valorizzato. Restare è una scelta di coraggio, o di virtuosa necessità. Chi decide di rimanere al Sud o crede nella propria terra o non può andare via per mancanza di mezzi. Terminati gli studi, gli studenti emigrati non ritornano perché ormai integrati nel nuovo mondo. Lo sviluppo del vecchio è quindi indebolito.

All’Università di Bari, per esempio, c’è la possibilità di usufruire di corsi altamente specializzati. Anche il sistema dei tirocini formativi è ben strutturato per essere in linea coi piani di studio. Ma poi? L’università è lasciata sola dalla politica. <<All’inizio non ho preso in considerazione l’idea di andare a studiare fuori, sia per ragioni economiche sia perché si tratta comunque di una scelta coraggiosa. Però adesso è una cosa che farei. Se dovessi prendere la magistrale sicuramente emigrerei, per trovare un ambiente dove poter avere più sicurezza in futuro…>> racconta Federica, 21 anni, studentessa di Scienze Politiche.

Entriamo nei particolari delle classifiche. Le università del Nord sono migliori nella percezione delle famiglie, ma di per sé quelle graduatorie hanno poco di scientifico, in quanto non si basano su criteri oggettivi bensì su pareri soggettivi. Molto spesso, inoltre, gli stessi committenti influenzano il risultato nell’impostazione delle domande. La prima graduatoria per le università mondiali venne stilata nel 2003 a Shangai. Il criterio si basava puramente sulla reputazione, infatti valutava quanti premi Nobel fossero usciti da ogni università, però non furono considerati quelli per la letteratura. Inoltre, se cambiano le formule di valutazione varia anche la lista. Basti pensare a quando l’Università di Siena dal 2014 al 2015 perse addirittura 221 posizioni siccome erano semplicemente cambiati gli indicatori, mentre la qualità della didattica era rimasta la stessa. D’altronde, in un anno nessuna situazione può variare tanto drasticamente.

Le metodologie utilizzate per stilare le classifiche ignorano sia la storia sia la disponibilità economica dei singoli Atenei. Ecco allora come le università private, o comunque quelle dove le tasse sono più alte, hanno fondi maggiori da spendere in servizi utili ad aumentare gli indici di gradimento. Per spiegarlo con un esempio, nell’ultimo trentennio le sole Harvard e Yale hanno speso più della metà di tutte le sedi italiane messe insieme. Alla base c’era sicuramente una politica monetaria ben definita, la quale è ovviamente cresciuta fino ai giorni nostri. Le classifiche però, per quanto prive di senso, non solo orientano lo studente nella scelta, ma influenzano la ripartizione dei fondi, siccome l’aumento degli iscritti porta a un incremento di donazioni, sia pubbliche sia private. Nel sistema economico attuale, acquisire risorse significa sottarle ad altri, pertanto in questi termini il divario si accentua sempre più.

Le classifiche hanno poi ricadute anche sulle famiglie, le quali spendono ingenti somme per consentire ai figli di studiare in strutture più “famose” però non migliori di quelle vicino casa. In pratica si paga il blasone dell’ateneo unito ai servizi esterni collegati, non l’istruzione in sé. È un po’ come andare a Venezia, spendere otto euro per bere lo stesso caffè del bar di fiducia, ma pagarlo molto di più perché lo si consuma a Piazza San Marco. Il Sud si può salvare. Le idee ci sono, la volontà dei singoli anche. Ma la politica deve crederci, altrimenti non ha senso parlare di indefiniti “interventi strutturali”.

Bisogna inoltre considerare le nuove sfide con cui le università devono interfacciarsi. Tra tutte risalta sicuramente la novità della “modalità mista”, ovvero lezioni contemporaneamente sia in presenza sia online. Vittorio, 20 anni, studente di Lettere presso Uniba, commenta così: <<Nonostante le modalità di conversione della fruizione in presenza in DAD potrebbero essere considerate assai dispendiose, certamente garantirebbero una più estesa partecipazione alla proposta universitaria generale, soprattutto se consideriamo come la ricerca di un appartamento o un alloggio universitario è diventata un’operazione sempre più difficoltosa. La scuola è sempre stata “in presenza”, tuttavia temo che sacrificare una maggiore disponibilità didattica per mantenere viva una necessità sociale potrebbe rappresentare un errore data la nuova possibilità di sfruttare uno strumento simile per recuperare chi non riesce sempre a seguire le lezioni, specialmente i pendolari o i fuorisede>>. La tecnologia potrebbe forse ridurre il gap tra regioni? Sicuramente la modalità mista è un terreno ancora fertile per la scuola italiana.

L’università di Bari sotto la direzione del rettore Stefano Bronzini ha adottato una visione concreta per la valorizzazione dell’Ateneo attraverso una focalizzazione sull’attuale presente. Ai futuri indeterminati ci penserà chi verrà. A tal proposito, negli ultimi anni i servizi introdotti sono stati molti: dagli sportelli di consulenza psicologica alla diminuzione delle tasse universitarie, dall’introduzione di nuovi corsi di studi all’ampliamento delle offerte formative. L’università ha cercato di colmare gli handicap generati dalle mancanze, o dalle indifferenze, delle politiche non solo regionali. Sono stati ampliati accordi con imprese locali, multinazionali, comuni. Gli studenti sono al centro dei progetti, la qualità della didattica è alta, eppure tutto questo sforzo ancora non basta. Se l’università è lasciata sola ogni iniziativa non potrà mai raggiungere pienamente gli effetti sperati. Di questo passo la “questione meridionale” durerà in eterno, il Nord continuerà a batterci fino a costringerci a cedere il passo.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).