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Inclusività: “Garantire pari diritti tra chi può farcela da solo e chi no”

Intervista alla Dott.ssa Annatonia Margiotta, pedagogista, scrittrice, funzionaria presso la Regione Puglia, responsabile Interventi di diffusione della legalità, per parlare di welfare, diritti, inclusività. Nel 2021 ha pubblicato “Disabilità e Inclusione Sociale: Il Racconto di una Madre”, edito da “Edizioni dal Sud”, libro da cui quest’oggi riprendiamo alcune importanti considerazioni.

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di Alessandro Andrea Argeri

All’interno del suo ultimo libro, “Disabilità e Inclusione Sociale: Il Racconto di una Madre”, la Dottoressa Margiotta pone l’attenzione su una tematica molto spesso ignorata, ma dal peso sociale importantissimo: la tutela dei cittadini affetti da disabilità. Il vissuto personale di madre con un figlio disabile si intreccia con la professionalità della pedagogista, per dare vita a un racconto tanto soggettivo quanto tecnico.

  • Dottoressa, da quale storia nasce questo libro e con quale scopo è stato scritto?

Questo libro nasce da un’esperienza personale, la mia, quella di una giovane donna che a 22 anni mette al mondo il suo primo figlio e che solo al momento del parto ci si accorge, o meglio dire i medici si accorgono, che il bambino è affetto da una grave disabilità e che, a loro dire, con un’aspettativa di vita molto breve: sei mesi, massimo un anno. La disabilità è causata da idrocefalo in spina bifida. Considerata la gravità della malformazione i medici dicono che si potrebbe evitare un accanimento alla cura perché tanto il suo destino sarebbe segnato. Mio figlio oggi ha 34 anni, a settembre ne compirà 35.

  • I medici avevano sbagliato le previsioni?

Non proprio. Trentaquattro anni fa, soprattutto qui in Puglia, o comunque nel meridione, di questa complessa malformazione e delle sue potenzialità non si sapeva molto, la durata media della vita dei nati con questa malformazione era effettivamente molto bassa, tanto che in alcune situazioni preferivano non intervenire chirurgicamente sia per ridurre l’idrocefalo sia sulla lesione del meningocele.

Diversamente di quanto invece si faceva al Gaslini di Genova, dove seguivano già da tempo bambini con questo tipo di malformazione, così mio figlio è stato preso in cura lì. Quando abbiamo chiesto loro quali sarebbero state le sue aspettative di vita, ci hanno detto che del futuro di ognuno di noi non può decidere nessuno e che loro avrebbero fatto tutto il possibile per garantire una buona qualità della vita per il tempo della sua vita. Il libro prende dunque le mosse da questa esperienza così forte e coinvolgente, quella di avere un figlio affetto da disabilità, che una madre e una coppia di giovani sposi si trova a sperimentare. Il percorso di elaborazione di questo vissuto emozionale è durato tantissimo, quasi trent’anni. Prima di questo periodo non ero mai riuscita ad esternare quello tsunami emotivo che mi portavo dentro, per tutta una serie di motivazioni.

  • Quali?

Intanto il non aver ricevuto da subito un supporto specialistico di tipo psicologico che permettesse a me e a mio marito di elaborare queste grandi emozioni, il trauma di scoprire che tuo figlio non solo è nato con malformazioni ma la sua qualità della vita sarà molto inferiore rispetto a quanto dovrebbe essere, è un evento forte che necessita di un adeguato supporto perché è un progetto di vita da ricostruire con una quotidianità molto complessa. E non tutte le persone sono in grado di farcela senza un aiuto specialistico. È un pugno di emozioni abbastanza forte che ha bisogno di essere elaborato in un certo modo. Se non si hanno le giuste competenze e il giusto supporto, la mancanza di elaborazione di queste emozioni può produrre tutta una serie di dinamiche di un altro tipo, anche molto serie sul piano della salute psicofisica. Solo in quest’ultimo periodo sono riuscita ad elaborare queste emozioni e a guardarle sia dall’interno, con lo sguardo della mamma, sia dall’esterno con l’occhio della pedagogista, attraverso il quale ho trovato forza per elaborare e gli aspetti tecnici per realizzare un lavoro che potesse essere utile alle famiglie, ai tecnici della scuola e ai decisori politici.

  • La disabilità di suo figlio si sarebbe potuta prevedere in gravidanza?

“Assolutamente sì”: questo ci dissero a Genova. Addirittura, si sarebbe potuto leggere già dalle prime ecografie, dove si vedeva una deformazione nella parte del cervelletto. Sempre a Genova ci dissero che avrebbero potuto farci una dichiarazione qualora avessimo voluto denunciare i medici che ci avevano seguiti durante la gravidanza per vederci riconosciuta l’indennità.

  • Lei ha denunciato?

Ho chiesto se con quei soldi avrei potuto guarire mio figlio. Ci dissero di no e così con mio marito decidemmo di non fare niente, soprattutto perché eravamo troppo stressati emotivamente per portare avanti una causa legale nei confronti dell’ospedale. Ci sentivamo soli, fragili e abbandonati, così abbiamo deciso di dedicarci solo al bambino. Oggi forse credo che sia stata una decisione sbagliata non denunciare. Il medico era un obiettore di coscienza. Ci disse di non essersi accorto di questa deformazione, di aver letto di idrocefalo e spina bifida solo nei testi universitari, che non gli era mai capitata una situazione del genere e che gli sarebbe rimasto questo scrupolo a vita.

  • In un articolo sull’aborto chiedevo a un campione di donne quanto si sentissero tutelate in Italia. Solo una su sette si è sentita pienamente tutelata. Partiamo dal presupposto che non bisogna confondere l’aborto con la contraccezione, come si può contrastare il fenomeno degli obiettori?

Secondo me non si tratta di contrastare il fenomeno, perché ogni medico ha il diritto di fare le proprie scelte, ma lo stesso vale per le famiglie. Intanto se il medico si accorge che c’è una condizione che rende problematica la vita e la salute del feto, io credo che abbia il dovere morale di comunicarlo alla famiglia, poi sarà la famiglia a fare le proprie valutazioni, scegliere e decidere se portare avanti la gravidanza oppure no. Un medico non ha il diritto di arrogarsi questa decisione perché poi chi deve far i conti con una situazione problematica non è il medico ma la famiglia con la persona che nasce con disabilità che deve subire i tanti interventi, i disagi, le limitazioni, le sofferenze. Se però oggi mi chiede se avrei abortito, le rispondo che non lo so.

  • Ci troviamo in una situazione in cui le leggi ci sono, ma non vengono applicate. Cosa fare per applicarle?

Abbiamo una normativa nazionale, la legge quadro n. 328 del 2000 che è considerata una rivoluzione copernicana per quanto riguarda l’organizzazione del welfare, soprattutto per quanto riguarda le persone con disabilità. Basterebbe applicare quella legge e che in Italia ci fossero referenti istituzionali che possano prendere davvero a cuore e dare priorità ai bisogni di tante famiglie e tante persone che vivono la disabilità. C’è poi una bozza di legge per il riconoscimento del caregiver famigliare, presentata nel 2014 e nel 2015, ma è ancora ferma lì. Ad oggi il caregiver familiare non ha alcun tipo di riconoscimento, eppure è la persona su cui grava tutto il carico di cura del disabile, che in alcuni casi deve rinunciare a lavorare perché non ci sono altri modi di interventi, mentre quelli che ci sono non coprono l’intera giornata e non possono soddisfare le esigenze di una persona disabile. C’è bisogno di attuare concretamente quella legge e cercare di immedesimarsi di più nelle difficoltà delle famiglie.

  • Chi è stato il caregiver di suo figlio?

Io e mio marito, entrambi, ci siamo alternati. Io fino alle scuole medie sono stata caregiver al 100%, non lavoravo e non potevo lavorare perché non c’era nessuno che potesse supportare mio figlio. Penso ad esempio alla carenza della rete dei trasporti. I trasporti pubblici locali sono inefficienti, non permettono l’autonomia, ancor più di per una persona disabile e sono praticamente inesistenti i trasporti privati. Dovrebbe esserci un servizio pubblico che possa permettere maggiore autonomia e garantire le stesse opportunità per tutti. Mancano anche attività ricreative o spazi sportivi per lo sport dei disabili, quest’ultimi mancano totalmente se non in qualche rara realtà.

  • Com’è l’esperienza del caregiver?

Un caregiver organizza la sua giornata solo ed esclusivamente in funzione delle esigenze della persona da supportare, ma è lasciato completamente solo e le pratiche burocratiche assorbono molto tempo. Ad esempio sono passati 34 anni ma non è cambiato nulla, prima ogni quindici giorni andavo alla farmacia dell’ospedale per ritirare una parte delle forniture, perché difficilmente sono disponibili tutte, e ora fa la stessa cosa mio marito. Per sgravare una famiglia di queste incombenze inutili, basterebbe organizzare le forniture su base semestrale per le medicine e ausili. Perché non si può fare o non si fa, nessuno me lo ha ancora spiegato.

Un caregiver ha necessità di dedicare tanto tempo al disabile e ne resta poco per altro. Anche l’organizzazione del lavoro è problematica soprattutto se la fonte di reddito è da lavoro autonomo poiché la riduzione dell’orario di lavoro significa diminuire gli introiti economici, disagio che si accentua per le famiglie monoreddito. Ecco perché è importante che sia riconosciuto il ruolo del caregiver familiare, sia per i dipendenti sia per i lavoratori autonomi.

  • Suo figlio ora come sta?

Bene, ha 34 anni ed è un ragazzo che ha fatto progressi straordinari nell’acquisire un discreto grado di autonomia. Sono conquiste sue, non gli ha insegnato niente nessuno perché non abbiamo neanche strutture di questo tipo. Per il resto fa controlli periodici per quelle che sono le sue problematiche. Ovviamente bisogna tenere tutto sempre in perfetto equilibrio.

  • Il suo libro si divide in due parti: una componente più sociale su uno sfondo comunque personale. Dal punto di vista umano, com’è stato affrontare l’esperienza di avere un figlio disabile?

Durante la mia esperienza ha aiutato il confronto con tante altre famiglie, inoltre intorno agli anni ’90 ho costituito un’associazione di volontariato per persone affette da disabilità. Per quanto riguarda i sentimenti e lo stato d’animo, credo sia uguale per tutte le persone. È un po’ come quando c’è un lutto: c’è un processo di elaborazione che passa attraverso varie fasi: prima c’è il senso di confusione e di difficoltà di accettare una realtà così forte, poi c’è la consapevolezza con l’accettazione di ciò che è successo e la costruzione di una quotidianità diversa e quando questo percorso è lineare si stabiliscono nuovi ed efficaci equilibri. I meccanismi che si generano all’interno dello stato d’animo di una persona richiedono di metabolizzare ed elaborare quello che è successo per costruire un nuovo progetto di vita.

Una famiglia che si forma nasce con un progetto di vita, ma quando irrompe una malattia a un componente della famiglia bisogna inevitabilmente rivederli e ricorrere alla resilienza, quella capacità che tutti abbiamo ma che bisogna allenare, per trasformare tutte le criticità in opportunità di crescita sulle nuove esigenze.

  • Parlando di scuola. Come giudica l’offerta didattica di sostegno? Bisognerebbe riformare le pratiche di reclutamento, formazione e sviluppo del personale docente? In che modo?

È povera in termini di ore e di risorse umane. Se vogliamo costruire un welfare che sia veramente inclusivo nei fatti e non solo delle parole, il diritto allo studio deve essere garantito attraverso un aumento delle risorse umane che sia adeguato al numero di ragazze e di ragazzi che hanno necessità dell’insegnante di sostegno e deve essere anche coerente in termini di ore indicate al sostegno per dare la possibilità di costruire un percorso scolastico senza limiti. Questo significa garantire pari diritti tra chi può farcela da solo e chi no. Significherebbe anche dare più opportunità a chi ne ha meno per bilanciare ed equiparare. Nella realtà dei fatti invece abbiamo pochi insegnanti di sostegno, stessa cosa vale con gli assistenti e poi non si può fare a meno della figura del pedagogista. Inoltre, il sevizio dei trasporti è strettamente collegato al diritto allo studio. Se mancano le infrastrutture dei trasporti, frequentare un istituto superiore diventa un serio problema, in certi casi significa anche impedire che uno studente possa frequentare, quindi equivale a violare i diritti e a discriminare persone con disabilità. In altre parole, questo sistema non consente di applicare il diritto allo studio. Se è difficile per una persona “normale”, per una persona con disabilità è praticamente impossibile, e questa è colossale una violazione dei diritti.

  • Quello dei trasporti è un tema noto. L’inefficienza si è vista tutta durante l’emergenza pandemica, quando siamo stati costretti a chiudere le scuole, e anche quest’anno la ripresa si preannuncia difficile perché molte lacune non sono state colmate. Secondo lei perché si continua a parlare di problemi ma non si cerca di risolverli?

Non c’è l’interesse, o forse in chi ha la responsabilità di dare attuazione alle normative manca l’esperienza di chi vive dall’interno queste problematiche. Le cose potrebbero essere diverse, ma l’impressione è che nessuno tra chi dovrebbe agire, tocca con mano la realtà.

  • Dottoressa, è periodo di elezioni. Da esperto e prima ancora da madre, cosa chiederebbe al nuovo governo, qualsiasi esso sia?

Il problema ovviamente non è il colore politico del nuovo governo: le problematiche sociali non devono avere e non hanno alcun colore politico. Quello che si chiede è un’attenzione concreta per eliminare o comunque cercare di ridurre e contrastare le discriminazioni sociali che ci sono nei confronti di chi ha maggiori fragilità. Queste cose sono previste dagli obiettivi strategici della comunità europea, oltretutto sono tra gli obiettivi primari che bisogna raggiungere e garantire. Si parla di pari opportunità e di inclusività, ma dal parlare poi bisogna passare alle azioni. Di fatto, c’è che il carico di cura continua a restare sulle spalle delle famiglie e che le persone con disabilità non riescono a godere della vita della comunità, vivono praticamente ai margini. È vero che ci sono anche le eccezioni, ma non sono la regola. Le nostre città non sono attrezzate, sia per barriere architettoniche sia per fattori culturali, stereotipi, pregiudizi nei confronti di chi ha una differenza di qualsiasi tipo. Siamo molto indietro, dobbiamo lavorarci. Coloro che sono interessati a rimanere aggiornati sul tema della tutela della disabilità. possono seguire anche il mio gruppo facebook: Politiche sociali, immigrazione, legalità.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).