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Dopo Rushdie accoltelliamo anche Shakespeare

Chi sostiene la “cancel culture” non è tanto superiore a chi ha provato a silenziare Rushdie. La differenza è solo nei metodi di censura.

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Credit foto imgflip.com.

di Alessandro Andrea Argeri

A differenza di Orhan Pamuk, non mi è ancora mai capitato di “intrattenere molte lunghe conversazioni con svariati scrittori minacciati di morte, specie da islamisti o estremisti islamici”. Però conosco molte persone vittime di violenza, sia fisica sia psicologica, stalking o attacchi mirati alla propria persona, semplicemente per aver manifestato idee politiche diverse da qualcun altro, o per essersi distanziate da un determinato gruppo. A primo impatto può sembrare una narrazione vecchia come il mondo, eppure perché continua ad essere una questione tremendamente moderna?

La storia di Rushdie ormai è di dominio pubblico: era stato oggetto di una fatwa nel 1989 per aver scritto un libro, da lì in poi aveva dovuto vivere sotto scorta per tutta la vita. È stato accoltellato proprio nel momento in cui la tensione sembrava essersi allentata, quando aveva immaginato di poter tornare a vivere liberamente. La nostra opinione pubblica è stata costernata per due giorni davanti alla sventura dello scrittore. Si è inneggiato alla libertà d’espressione, di parola, di pensiero, proprio come nel 2015 quando “eravamo tutti Charlie Hebdo”. Poi siamo tornati a censurare, ad odiare le nostre radici, le fondamenta del pensiero Occidentale.

Nella stessa settimana in cui Rushdie veniva accoltellato dall’estremismo, alcune università del Regno Unito decidevano di bandire Shakespeare dai programmi di studio, poiché tacciato come “razzista”, “colonialista”, “sessista”. In pratica in un colpo solo, intimoriti dal fanatismo della cultura woke, alcuni centri culturali britannici hanno rinnegato la propria storia nazionale, l’inventore della lingua inglese, il principale motivo per cui sono stati lungamente un’egemonia culturale, la ragione stessa per la quale oggi riescono a pensare in termini di “libertà d’espressione”. A questo punto accoltelliamo pure il Bardo nazionale inglese, assieme a tutti i grandi intellettuali della nostra storia. Compiamo una carneficina di idee proprio in virtù di quest’ultime, ma attenzione: senza sangue, altrimenti potremmo impressionarci. Spero si colgano le contraddizioni.

La differenza con l’estremismo religioso è solo una: il metodo. Uno ti accoltella davanti alle telecamere, l’altro invece dietro le quinte. La criminalità funziona allo stesso modo. C’è chi si incrimina da solo mentre filma i reati, o chi agisce con discrezione per non essere scoperto. Eppure se si vuole ampliare un sistema di pensiero, si creano pensieri nuovi, idee moderne più forti di quelle vecchie. Non ha senso pretendere di eliminarle semplicemente. Stesso ragionamento con la lingua: se “si necessita di nuovi vocaboli per l’inclusività”, allora si creano parole inedite, chiamate “neologismi”, mica si eliminano quelle già presenti.

Cieco odio ancora più intenso lo attirano i vari culti. Eppure il problema non è la religione, sia questa islamica, cristiana, o di qualsiasi altro tipo. Bensì chi la interpreta male. Si può decidere di credere o meno, tuttavia Gesù tra i vari insegnamenti predicava amorosa tolleranza nei confronti del prossimo, non rabbiosa censura. Ugualmente, di fronte all’estremismo qualsiasi musulmano veramente credente vi risponderà: “chi non tratta la gente con misericordia non otterrà la misericordia da Dio”, poiché “nessuno è ‘davvero un credente finché non ama per suo fratello, il prossimo, ciò che ama per se stesso”. Il musulmano da cui ho appreso queste frasi ha sottolineato essere queste citazioni di Maometto.

Più volte in questi giorni di campagna elettorale mi sono domandato dove il mio voto andrà a finire. Quali saranno le conseguenze? Chi avrà il potere di prendere determinati provvedimenti con il mio implicito, segreto sostegno? Sebbene più scettici sostengano non serva a niente, votare è importante, soprattutto per chi vive nei piccoli centri o nelle periferie, dove si consuma la realtà di questa Italia tanto contraddittoria.

Mentre consultavo i programmi elettorali, mi ha stupito leggere all’interno del programma del Movimento 5 Stelle un punto in particolare: “regolamentazione delle lobby”. Si tratta di un cavallo di battaglia anche di Fratelli d’Italia, probabile vincitore delle elezioni in corso. All’interno dei partiti ci sono delle lobby, delle organizzazioni affiliate, non solo economiche ma soprattutto culturali. Talvolta si rivelano vere sette: partiti nei partiti, solitamente si riconoscono nelle frange estreme sempre presenti in determinati circoli “culturali”.

Per il loro modo di operare, oltre che di controllare gli adepti, all’interno di queste sette ci vorrebbe un’inchiesta, non giornalistica bensì dei carabinieri. Bisognerebbe porsi delle domande. Chi sono i capi? Perché escono raramente allo scoperto? A quali partiti sono affiliati? Chi di questi è entrato in politica? Come agiscono sui territori? Con quali esponenti della criminalità organizzata hanno rapporti? Da dove provengono i finanziamenti alle varie associazioni? Dove vanno a finire i soldi? A quest’ultima domanda si può facilmente rispondere: la maggior parte dei ricavati viene intascata dai capi per tornaconto personale, il resto serve a finanziare la pubblicità sui vari canali social, oppure a pagare pagine con un elevato numero di follower sia per propagandare sotto un’altra voce sia per raggiungere in poco tempo un pubblico più ampio. La visibilità è necessaria per il consentire alla ruota di continuare a girare.

Se vincerà la destra di Giorgia Meloni il merito sarà tutto dei sostenitori della cancel culture, coloro i quali dicono di essere di sinistra, quando in realtà sono esattamente uguali, se non peggio, dei fascisti contro cui dichiarano di combattere. Dove risiedano questi mostri tutti ideologici nella vita reale? Questo non è dato saperlo. “Ci sono”. La democrazia è sempre in pericolo per colpa di qualcun altro, le controversie si risolvono con una ricetta a base di odio, trash talking, asterischi, il tutto condito da una “sana” dose di disinformazione attribuita a una potenza straniera. In tutto questo, il popolo, impaurito da cambiamenti di cui non comprende le ragioni, diventa ideologicamente conservatore. In sintesi, i capi progressisti ingannano chi diritti non ne ha attraverso una continua propaganda, in tal modo alimentano lo stato di discriminazione per continuare a garantirsi un ruolo.

Se però si smette di ascoltare un’ideologia folle per dare spazio ai discorsi della gente comune, chi la realtà la vive, ovvero i lavoratori, ci si accorge di come il problema fondamentale dell’Occidente non sia la censura di un libro, ma arrivare a fine mese. In Italia abbiamo varie piaghe: dal lavoro sottopagato a quello precario, dai contratti a tempo determinato alla mancanza di un salario minimo legale, dagli stage gratuiti per sfruttare la manodopera giovanile alla disparità salariale, dall’omofobia ancora molto radicata alla scuola da riformare, dalla sanità ancora inefficiente alla transizione ecologica da attuare.

Per quanto riguarda i contenuti accettabili, sensibili o meno, la responsabilità è tutta di chi vuole usufruire di quel determinato contenuto. Se entri in libreria puoi decidere se comprare un libro di Dan Brown o un manga porno. Puoi scegliere se leggere un articolo in cui va tutto bene, oppure uno come questo in cui si racconta una realtà senza romanzarla. Lottare per i diritti è giusto oltre che sacrosanto. Sbagliato è invece cadere nel fanatismo. Ho scritto queste parole perché non ha senso difendere l’indifendibile, fingere di non vedere per paura delle critiche dei fautori della falsa inclusività. È questione di onestà intellettuale nei confronti sia di chi scrive sia di chi legge, oltre che di libertà d’espressione, la stessa per cui gli scrittori vengono accoltellati.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).