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Cultura

Nella terra degli orchi

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di MICHELANGELA BARBA

Lo chiamano “Bosco verde”, come se fosse un luogo delle fiabe. Invece, è stato appurato, era la terra degli orchi.


Palazzi di un verde improbabile con chiari segni di scarsa manutenzione piantati lì, in una periferia piatta.

Il Bosco Verde di Cavaiano dove ha trovato la morte la piccola Chicca Loffredo (e appena un anno prima l’altrettanto piccolo Antonio) sorge a poca distanza da quella che sarà la prossima casa di Ebano.

Pochi chilometri per ricordarci la ferocia della violenza sulle donne e sui bambini, Olocausto mai cessato, che attraversa le epoche e le nazioni.

Abbiamo sentito ricordare, in queste giornate della memoria, tra gli altri, il pedagogista polacco Janusz Korczak che spontaneamente accettò la deportazione per non abbandonare i “suoi” bambini.

Una sua frase, su tutte, come una pietra miliare: “Non ci è concesso lasciare il mondo così com’è”

No, non ci è concesso.

Non ci è concesso ridere, gioire, non ci è concesso pensare al domani se il domani è un regno di orchi dove non vale la pena di vivere.

Quanti Boschi Verdi ci circondano? Che cosa sappiamo dei loro abitanti, soprattutto di quelli più piccoli? Cosa sappiamo e cosa ci interessa sapere? Non servono studi antropologici per riconoscere i luoghi di dolore. Parlano i muri accostati, i cornicioni cadenti, i cumuli di rifiuti.

Parlano i cavi a vista, le porte forzate e le carcasse dei topi.

Cosa ce ne vogliamo fare di questa umanità?

Farcene carico o aspettare il prossimo articolo di cronaca con una punta di macabro godimento?

O forse aizzarli tra loro, come a Bologna: l’anziana madre che ha perso il figlio tossicodipendente di qua contro il giovanissimo presunto spacciatore di là. In mezzo il baraccone della politica, a non dare giustizia né all’una né all’altro.

Cosa ce ne facciamo di questi bambini che crescono tra desideri impossibili e promesse non mantenute, prede degli orchi e testimoni, anzi, martiri – perché mai grecismo fu più appropriato – di violenza fin dal loro primo vagito?

Cosa ce ne facciamo di queste donne che, signora mia, non fanno la telefonata all’apposito numero all’orario stabilito, non espongo chiaramente il problema, non si presentano all’appuntamento nel giorno e nell’ora fissati all’indirizzo che è stato comunicato, non formulano chiara richiesta d’aiuto, non hanno alleanza terapeutica, insomma, non ce la fanno, non seguono il protocollo? Cosa ce ne facciamo?

Noi di Ebano le accogliamo, con fatica. Con mille fatiche. Prima fra tutte quella economica.

“Ma come fate…?” Lo facciamo e basta. Perché non ci è concesso fare altro.

La nostra Resistenza, nel 2020, è questa. Centimetro per centimetro. Giorno per giorno.

Un’utenza difficile di qua, la cecità diffusa di là, un sistema di servizi autoreferenziale fino all’autismo tutto intorno.

Dal bosco, una volta entrati, è difficile uscire.

“Buongiorno, siamo la cooperativa edilizia per l’housing sociale XXX convenzionata con il Comune di Milano”

“Buongiorno, chiamo dall’associazione Ebano, stiamo cercando una soluzione abitativa per un nucleo mamma più tre figli che seguiamo…”

“Che garanzie di reddito offre la signora?”

“Ehm…lavora da qualche mese, ha una busta paga, potrebbe pagare un affitto modesto…”

“Noi chiediamo un reddito netto almeno triplo al canone, contratto a tempo indeterminato e comunque per una famiglia di 4 persone almeno 2 buste paga”

“Ma questa mamma è sola e non guadagna così tanto! Potremmo fare da garanti noi!”

“Mi spiace, non è possibile: il nucleo deve essere autonomo dal punto di vista economico”

“Ma allora cercherebbe casa nel mercato privato!”

“Non siamo una cooperativa sociale quindi offriamo spazi comuni per corsi di yoga a basso costo, laboratori di acquerello per bambini acquistabili a pacchetto, accompagnamento educativo e esperienze di scambi solidali. E facciamo lunghi contratti con canoni secondo le apposite tabelle però vogliamo garanzie economiche adeguate…”

Già. Bussiness are bussiness. L’aspetto sociale di un’impresa si riconosce ovviamente dalle lezioni di yoga, non certo dalla possibilità di sottrarre davvero persone fragili dal degrado.

E il circo continua: pupazzi, fiori e lacrime per ogni nuova vittima innocente, totale amnesia sulle “prossime vittime” ancora in vita.

Forse gli haters, che neppure della morte hanno rispetto, nella loro crudeltà, sono semplicemente i meno ipocriti.

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo