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Peste e coronavirus: storia di un calendario all’indietro

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di SARA D’ANGELO

«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia»


Il girotondo della storia non si ferma mai, ogni tanto fa una pausa per poi riprendere la marcia del suo vortice e lo fa all’improvviso, senza pietà.

Un flagello gemello a distanza di cinque secoli si è manifestato a noi a passi felpati per non dare sospetti, imitando i modi del leone che si prepara con le sue abilità mimetiche a dare l’agguato alla gazzella. Altro è il tempo, uguale è la velocità di contagio, altra è l’origine del male, identico è il terremoto schiacciatore di vita. La scossa nefasta adesso è con noi, anzi, tra noi.

Alessandro Manzoni racconta la peste del 1630 in quel di Milano nei Promessi Sposi a cui dedica due capitoli dell’evoluzione di un’epidemia. L’anno 2020 battezza la sua sciagura con il termine pandemia, Dio la chiama “prova”.

La Milano del 1630 si sveglia con bubboni, febbri, spasimi, deliri, morte. Dare un nome alla sciagura diventa uno stratagemma per tenere distante l’orrore. La realtà è una verità inaccettabile, quindi da allontanare perfino cercando un aggettivo dalla “temperatura mite” per contrastare il fuoco dell’inferno sceso sulla terra.

“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto.”

Nel 1630 e nel 2020 l’umanità registra indifesa un salto nel buio della sua notte più nera, un viaggio da incubo indietro nel tempo che cammina inciampando in passi superficiali, un comodo taxi per peste e virus, con pericolosi provvedimenti che anziché contenere il morbo lo aiuta a diffondersi.
1630 senza una medicina, 2020 senza un vaccino. La psicosi generale è motivo per allestire un drammatico gemellaggio tra le due calamità.

Scienziati e virologi alla ricerca dell’untore di allora, del paziente zero di ora. Fu il Protofisico, è il virologo.
Accorsero cappuccini a indossare il dignitoso abito della pietà umana, eroica come una missione nello spazio è la guerra quotidiana di medici, infermieri, soccorritori. Professione e umanità serpeggiano lungo i bianchi corridoi asettici, c’è un corpo piegato da restituire sano alla vita. C’è stanchezza, c’è sonno, ma non muore mai il sogno di uscire dall’incubo.

” E perciò l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa.”
Editti allora decreti ora per informare e per vietare, indicazioni prima, ordini poi, per fare in fretta nella dura missione di annientare il morbo.

“Il tribunale ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte.”

Analogie inquietanti in fila come tanti punti interrogativi di una domanda senza risposta. È un viaggio che nessuno aveva in programma, un soggiorno nel paese della paura, la stessa che hanno conosciuto i nostri padri e i nostri nonni.

Da questo vicolo oscuro ne usciremo tutti, ne usciremo insieme perché non esiste tunnel senza un bagliore di luce, ma un cammino a passi lenti è miope, pericolosa fonte di cecità. Correre è necessario, ma solo un galoppo immobile, l’isolamento, può arginare la sventura del precipizio sinistro che scandisce il tempo davanti ai nostri occhi. Abbracciare la solitudine per conquistare il premio più ambito, aggiungere giorni alla vita.

La carestia d’aria germoglierà in una brezza invocata da un affiatato coro umano, il privilegio più atteso della primavera più bella della nostra vita.

L’uomo è il virus di se stesso, quando saremo liberi dal COVID-19 avremo imparato dalla cattedra di questo male che il germe maligno che annienta non è mai stato solo la peste, colera o spagnola, ma un granello di sabbia che crede di essere un deserto, un filo d’erba che non sarà mai il giardino del re.
La casa dell’uomo è in rovina, non importa se ha come riparo un tetto imponente, fuori c’è un cielo che vede e che sente. Dio è misericordioso ma è anche un Padre. Perdona ma prima ci conduce per mano sul luogo delle nostre colpe e delle nostre responsabilità disattese: la coscienza.
Siamo i suoi piccoli figli sempre, la carta d’identità non conta.

Sara D'Angelo, siciliana, appassionata di lettura e letteratura, è redattrice per diversi giornali on line con cui collabora con passione e dedizione.