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Cultura

Sedile24 / Nove ore in treno da Vitoria a Santiago di Compostela (III)

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di IGOR SANTOS

*** Continua con queste righe una serie di tredici puntate per raccontare un viaggio in treno da Vitoria, nei Paesi Baschi, a Santiago di Compostela, nella Galizia, che percorre buona parte del nord della penisola iberica ****

Da Miranda de Ebro a Pancorbo

Il rinculo della carrozza mi fa abbandonare il passato in questo presente vissuto a Miranda e mi ricorda, anche, che le manovre di collegamento dei pezzi del nuovo convoglio non sono ancora finite. Sono le 11.47 quando il treno riparte e in questa lunga mezz’ora, pur spostandoci di poco, abbiamo camminato secoli. Finalmente il treno ricomincia il suo viaggio. Lenti si attraversa il fiume Ebro, che regala il suo cognome alla cittadina. Dal finestrino è appena visibile quel che resta del borgo medievale, colto tra il letto del fiume e i ruderi del castello (qui la storia è sempre un rudere). L’acqua scorre verso destra, ostinata, unica corrente che, tra i fiumi che vedremo, consegnerà le sue fatiche nel Mediterraneo, quasi uno scherzo di queste terre, una contraddizione di questo viaggio che sarà, che è condannato a essere, atlantico. Poi per un poco si costeggia un assaggio di periferia tra brutti casseggiati, come quelli che si vedono ovunque in Spagna, perpetuo ricordo della pochezza dell’edilizia civile cresciuta in fretta negli anni neri del nero Franchismo, quando gli spazi rurali furono via via svuotati di uomini e di donne e dei loro bambini, sopravvissuti a repressione e guerra per essere ammassati nei poli industriali delle capitali di provincia e delle piccole città.

Alcuni magazzini accanto alla stazione, mattone rosso su mattone rosso e, ancora una volta, aria inglese, resistono alla sentenza del tempo e danno prova del gusto perduto nel naufragio della guerra, da sembrare un’utopia se si paragona il loro stile leggero con le villette a schiera sorte dappertutto nell’odierna corsa al delirio edilizio.

Poco dopo è il turno dei campi e del grano, solo grano e ancora grano e alberi fioriti in questo inverno che non è, mentre le montagne attorno alla piana di Miranda chiudono lo sguardo all’immensità della Castiglia. Il treno passa accanto al monastero di Santa María di Bujedo, fondato nel XII secolo, e dal finestrino sembra di essere affacciati sul disegno antico (sempre l’Ottocento) di Gustave Doré, illustratore della Commedia dantesca e del libro L’Espagne, scritto da Charles Davillier (1874), dove si raccontano i viaggi dell’artista e dello scrittore lungo la geografia spagnola. Nel disegno il monastero si rivela come un’apparizione alla sinistra del viaggiatore (Doré era quindi diretto a Burgos, come me). Il monastero è un edificio enorme, dominato dall’austera torre. La signora seduta accanto al mio sedile guarda le pietre e, sussurrando vecchie parole, fa il segno della croce.

Subito dopo la montagna sembra voler negare ogni possibilità di passaggio. La roccia si chiude ancora in modo più ostinato, con tremendismo, là dove alcuni decisero di costruire le proprie dimore e chiese, di innalzare, oltre alle loro preghiere, persino un castello, di chiamare casa una gola e l’insieme Pancorbo. Noto ora, tra le pareti dello stretto corridoio che forma questo passo di montagna, la poca gente che mi accompagna nel treno, deserto su rotaia che contrasta con il traffico dell’autostrada che passa accanto, dove sono tante le macchine e i camion tra gli anfratti della montagna. La rotaia e la gomma a confronto, ognuna padrona del proprio tunnel che fende la roccia, qui superbamente alzata. Lo spazio per il borgo di Pancorbo è poco, e, tra montagna, pendii, statale e ferrovia, siamo costretti ad attraversare il paese quasi sorvolando i tetti, enorme macchia rossa di vecchie tegole, all’altezza del secondo piano della pala d’altare di pietra che serve da facciata cinquecentesca a una chiesa che, tra colonne e plinti, ricorda ancora il suo messaggio controriformista e, dunque, senza speranza.

Un vecchio, fermo in piedi accanto al passaggio a livello, bastone in mano e coperto con una visiera scolorita dal tempo, guarda altero il convoglio, come se volesse rimproverare chi viaggia dell’opportunità di un altrove a lui negato. È questa l’ultima immagine prima che una curva nella piana apra a destra, poi anche a sinistra, i campos de Castilla. Il verde, l’ocra e il marrone coprono le colline, impreziosite di tonalità ancora diverse grazie all’ombra che le nuovole basse proiettano ovunque. In groppa a una di quelle colline, il nero toro d’Osborne, vecchia pubblicità tramutata in monumento, sembra aspettare una donna da rapire in questo lembo d’Europa già rapito dal tempo.


Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo