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di MARIO GIANFRATE

Gennaio porta con sé la memoria dell’abisso nel quale l’Umanità rovinò per la aberrante pretesa supremazia di una razza sulle altre: quella ariano-tedesca, teorizzata dalla follia nazista.


E alla cui propaganda, noi, apportammo il nostro modesto contributo.

Un vento di gelo spirò sugli ebrei – ma, anche, su zingari, uomini di colore, omosessuali – torturati, violentati nel corpo e nello spirito, annientati come bestie al macello nei campi di sterminio. Una storia, un’orribile storia quella della Shoah, scritta dal fumo nauseabondo di carne bruciata che saliva al cielo dai camini dei forni crematori.

Mi raccontò, anni fa, Vito Rodio, un fabbro che, nella ritirata di Russia, aveva avuto il volto sfigurato dalle lame acuminate della tormenta di neve e dal freddo intenso – le temperature scendevano sotto i quarantacinque gradi -: “Ai primi di aprile, dopo un estenuante viaggio in tradotta, arrivammo a Leopoli. Qui ho assistito a scene raccapriccianti di ebrei massacrati nei loro quartieri recintati, dai tedeschi e dai poliziotti polacchi asserviti. Alcuni ufficiali delle SS, per divertimento, lanciavano bambini in aria e gli sparavano addosso come si fa nel tiro al piccione”. La sua voce si spezzò nella gola e il suo sguardo si diresse verso la finestra che dava sul cortile. Chiese alla moglie, una bella signora dai modi distinti, un bicchiere d’acqua. Bevve a piccoli sorsi e riprese a raccontare: “Agli ebrei facevano scavare le tombe che, di lì a poco, avrebbero raccolto i loro cadaveri. Finito di scavare, infatti, gli ebrei derisi e colpiti con il calcio dei fucili, venivano mitragliati. I loro corpi erano poi ricoperti approssimativamente con della terra dalla quale fuoriuscivano braccia e piedi”.

Quelle scene, di inumana brutalità, hanno seguito Vito Rodio fino agli ultimi momenti di vita, impossibili da cancellare.

“Eppure – scriverà Anna Frank nel suo diario – continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo”.