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La pace nel mondo la sogna solo Miss Italia

Desideriamo la pace, ma solo dopo esserci fatti la guerra.

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DI ROSAMARIA FUMAROLA

Fonte foto: Wikipedia

Esiste nella storia dell’uomo un numero finito di costanti, espresse da tutte le civiltà, anche quelle più evolute. Questo consente di studiarle e di studiarci come esseri in fondo prevedibili, quali di fatto siamo e di domandarci se una storia diversa sarebbe possibile, sebbene l’ovvia risposta sia che in tal caso, gli eventi grandi e piccoli che l’hanno scandita non si sarebbero con tale e tanta puntualità verificati e che dunque la risposta alla domanda non può che essere negativa. Ciò non significa che si debba considerare l’interpretazione di aspetti sia pure costanti dell’essere umano, come vissuti nella stessa identica maniera oggi, rispetto ad esempio ad una civiltà che pure consideriamo vicina a noi, quale fu quella greca antica. Pericle dava infatti per scontato, a quanto si apprende da un suo discorso, sia pure interpolato, se non radicalmente immaginato da Tucidide (ma non per questo meno rispondente al vero) che gli Ateniesi dovessero mettere quanti più figli al mondo per consentire all’esercito di contare sul maggior numero possibile di uomini ed eventualmente consolarsi essi stessi nella malaugurata ma frequente eventualità, che qualcuno morisse in battaglia, non facendo dunque più ritorno presso i propri cari.

Né Pericle, né i suoi ascoltatori immaginavano che tale fondamento della società ateniese potesse o dovesse essere messo in discussione. È invece un dato per noi scontato che i figli vengano generati oggi per tante ed anche le più svariate ragioni, ma non per essere messi a disposizione della patria. Qualcosa è cambiato evidentemente.

Cionondimeno non possiamo affermare di saper vivere senza la guerra, che rimane una costante anche delle civiltà attuali, in ogni parte del mondo. Le ragioni del fenomeno sono molteplici ed una loro indagine occuperebbe troppe pagine già scritte da altri meglio che da me, ma un dato appare indiscutibile: ci facciamo da sempre la guerra l’un l’altro per nostra volontà o perché costretti da quella altrui, il più delle volte quella dei nostri governanti. In relazione a questa tuttavia, in tempi relativamente recenti, siamo stati capaci di esprimere il nostro dissenso. Emblematico da questo punto di vista fu quanto accadde per la guerra in Vietnam negli anni 60. Quel conflitto e le sue atrocità entrarono tramite i mass media nelle case di tutti, suscitando la condanna e la richiesta di cessazione della ostilità da parte dell’opinione pubblica mondiale.

Oggi queste reazioni sono frequenti, sebbene non sempre efficaci al punto tale da condurre all’auspicato “cessate il fuoco”. È chiaro dunque che dissentire, disobbedire agli ordini imposti dai vertici politici di una nazione in materia di guerra, sia il risultato recentissimo di secoli durante i quali sono avvenuti cambiamenti sostanziali da un punto di vista culturale, sociale e di conseguenza giuridico, tali da permettere al cittadino di far prevalere altri valori rispetto a quelli della tradizionale supremazia dello stato.

La leva in tanti paesi non è oggi obbligatoria, ma questo non significa che le nazioni non si impegnino più in conflitti che garantiscano loro l’acquisizione di sempre maggiori ricchezze e di occupare una posizione il più possibile preminente nello scacchiere mondiale. In buona sostanza l’opinione pubblica occidentale è riuscita ad ottenere che la guerra come principio fosse ripudiata dalle proprie costituzioni, che prevalesse il peso dei bisogni e del rispetto dell’essere umano ed in effetti gli scontri almeno in questo momento storico non hanno luogo in occidente.

Lo stesso non può dirsi però per aree da noi lontane come l’Africa e l’Asia, nei cui conflitti molti dei paesi europei e non, sono comunque coinvolti. Insomma, la guerra la si fa comunque ma lontano, altrove, in luoghi nei quali non esistano costituzioni che la vietino. I conflitti infatti li esportiamo, ricavandone profitti non meno importanti che in passato. Credo si possa considerare questo come un dato pacifico; ma prima della guerra del Vietnam, episodi antimilitaristi, nei quali l’uomo abbia voluto prevalere ed ha prevalso sul soldato, hanno avuto luogo? Non è improbabile che ve ne siano stati, anche se solo di uno è rimasta forte traccia nella memoria collettiva. Si tratta della cosiddetta “tregua di Natale” che vide coinvolti durante il primo conflitto mondiale, tedeschi ed inglesi, che il 25 dicembre 1914 decisero di uscire dalle rispettive trincee per scambiarsi auguri e piccoli doni, facendosi beffe delle ostilità imposte. Pare che durante lo straordinario accadimento sia stata giocata persino una partita di calcio. Tale tregua terminò il 26, giorno nel quale gli scontri ripresero puntualmente con la stessa regolarità e ferocia con cui fino a due giorni prima avevano avuto luogo. I fatti in oggetto sono stati più volte messi in dubbio dagli storici, sebbene attualmente si tenda a considerarli come veritieri,  anche grazie al ritrovamento di un lettera inviata alla moglie dal generale inglese Congreve, nella quale questi dava conto della tregua, pur ammettendo di non avervi assistito personalmente.  Che si sia verificata o meno la tregua del 1914 entrò subito nel mito, diventando una delle memorie sacre del primo conflitto mondiale, nonché la prova (supposta) che gli uomini tutti, desiderino la pace e che per natura siano portati a fraternizzare più che a odiarsi su un campo di battaglia.

Per quel che mi riguarda devo confessare che i fatti veri o presunti riferibili a quella notte del 1914 hanno sempre suscitato in me una certa indignazione. Ciò è dovuto forse ad una interpretazione troppo radicale degli atti e dell’animo umani, che mi ha indotta a leggere quella momentanea cessazione delle ostilità come falsa, l’espressione cioè di tutta l’ambiguità di cui sappiamo essere capaci e che in quanto tale non possa considerarsi moralmente esemplare. 

Forse giudico troppo severamente un episodio di autentica fratellanza tra uomini “gettati a vivere” e combattere loro malgrado in una trincea, contro altri uomini nella medesima condizione, per soddisfare le ambizioni strategiche e di potere dei propri governanti, per i quali essi erano appunto solo carne da macello. Che si trattasse di uomini che ammazzassero e morissero per volontà altrui, costretti a compiere atti che forse non avrebbero mai compiuto, non vi può essere dubbio alcuno. L’interrogativo che però mi preme sollevare è se, pur ammettendo ciò, siamo sicuri che gli esseri umani non vogliano la guerra, che desiderino solo vivere in pace. Quale dato ci dà prova di ciò se al contrario la storia umana è soprattutto un elenco sconfinato di conflitti? L’individuo è da considerarsi cioè solo la pedina della sete di potere di politici cinici ed arroganti (come se quei politici non fossero poi essi stessi uomini)?

Forse la verità è che tutti gli esseri umani desiderano la pace, ma solo dopo la guerra e che si fanno la guerra dopo periodi brevi o lunghi di pace. Un potente esprime tale alternanza in ambito più ampio rispetto ad un cittadino qualunque, ma l’alternanza rimane essenzialmente la medesima nell’uno e nell’altro. Prova ne siano le parole di quel generale inglese sopra menzionato che, nella lettera alla moglie, dopo aver riferito della tregua di Natale aggiunse: “Uno dei miei ha fumato un sigaro con il miglior cecchino dell’esercito tedesco, non più che diciottenne. Dicono che ha ucciso più uomini di tutti, ma ora sappiamo da dove spara e spero di abbatterlo domani”.

Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano