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Cultura

Arte e senso di colpa

In arte può trovare posto il senso di colpa, il suo dolore e la vita nuova che da quel dolore nasce, perché quel dolore consente l’affacciarsi di una primavera.

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Masaccio, La Cacciata dal Giardino dell'Eden, fonte Wikimedia Commons

di Rosamaria Fumarola

La consapevolezza di aver trasgredito a qualcosa che dentro di sé si è divinizzato, questo è il senso di colpa. Nell’esperienza di ciascuno di noi  si associa ad una sensazione di dolorosa inadeguatezza ed al bisogno di espiazione per ristabilire un equilibrio rotto, che paralizza il nostro presente. Tuttavia tale trasgressione ci consente di conoscere una parte autentica di noi, non mediata da potere alcuno, laico o religioso che sia. Sottraendoci ad un imperativo categorico che abbiamo introiettato, facciamo dunque esperienza di una rivolta individuale che ci fa comprendere quali siano i nostri bisogni, prima frustrati dalla divinizzazione di qualcosa che è altro da noi. È questo ciò che molti studi di psicologia individuano come prerogativa fondamentale del senso di colpa, non più solamente visto nella sua accezione negativa, come eredità inevitabile dell’aver scelto di vivere in un consorzio che ha bisogno del rispetto di regole per funzionare, o come conseguenza di imperativi religiosi funzionali anch’essi all’esercizio di un potere, legittimo per i credenti, illegittimo per quanti non credono. L’esperienza del senso di colpa ci permette infatti da un lato di capire chi siamo e dall’altro di costruire un percorso che è soltanto il nostro. Nonostante ciò nessuno di noi può affermare che sentirsi in colpa sia un’esperienza gradevole. Violare le regole di una comunità significa affrontare gli altri in solitudine, porsi contro di essi rivendicando la legittimità di un proprio bisogno che quelle norme non contemplavano, eppure può essere l’occasione per una reinvenzione radicale dell’esistenza, che non di rado ha trovato e trova posto in arte. L’arte è infatti sempre un discorso dell’individuo e dunque può accogliere le parole nuove di chi, alle indicazioni della collettività abbia preferito quelle del proprio io. 

La creatività è prima di tutto invenzione di un mondo artificiale che si sottrae alle regole della società, ma anche a quelle della natura. È una rivolta radicale ed anche egoistica eppure fondamentale nella storia della civiltà, proprio perché accoglie una libertà assoluta dell’espressione e crea una storia parallela a quella dei popoli, che ci parla invece di sfruttamento, guerre, potere ed asservimento di uomini che non hanno potuto scegliere quasi mai la propria strada. 

In arte può  trovare posto il senso di colpa ed il suo dolore e la vita nuova che da quel dolore nasce, perché quel dolore consente l’affacciarsi di una primavera. Lo si trova anche ben espresso nel mito e nelle antiche divinità greche e romane, alcune delle quali ci appaiono contraddittorie: Apollo era il dio della musica e della poesia, ma anche delle pestilenze ed era un implacabile vendicatore. Nel mito greco il sangue versato non di rado produceva una nuova nascita. La cultura antica accoglie dunque una complessità che lo straordinario cristianesimo, tanto importante in termini di civilizzazione dell’umanità, non sempre ha abbracciato. L’arte può anche essere il luogo del racconto del senso di colpa non risolto. Fu così per Caravaggio e per Picasso,  il posto cioè nel quale collocare ciò che altrove non avrebbe cittadinanza,  soprattutto per ragioni morali. E tra i sensi di colpa che maggiormente sono stati in grado di creare bellezza, quelli prodotti dal cristianesimo occupano un posto speciale, a causa dell’estrema cogenza delle regole che presiedono la dottrina cristiana. 

Facendo esclusivo appello ad un’interpretazione materialistica ci si potrebbe a latere domandare se l’arte sia essenziale per l’uomo, come bere o sfamarsi. L’archeologia da sempre indica come onnipresenti nella storia e nella preistoria dell’uomo alcuni elementi, investiti di significati in parte mutevoli in parte no e tra questi la creatività come luogo della sublimazione di ciò che l’essere umano prova, pensa, desidera o semplicemente vede, ha sempre un suo posto, così come l’idea del divino, sebbene non sia lo stesso col quale noi  oggi conviviamo. Nel cristianesimo il bene ed il male presiedono schieramenti contrapposti e più che espressione dell’uomo sono il prodotto dell’evoluzione della sua cultura. 

A riconciliarci col mito e con il suo modo contraddittorio di rappresentare l’essere umano ha molto contribuito la ricerca psicoanalitica. Va ricordato peraltro che il senso di colpa svolge un ruolo fondamentale proprio a partire da quell’età, come l’arcaica e la classica in Grecia, in cui le regole imposte dal vivere civile e la responsabilità del rispetto che ne consegue,  acquisiscono una forza mai avuta prima. È in questo momento che nasce la tragedia, nella quale è  rappresentato il senso di colpa con la medesima moderna compiutezza con cui noi oggi lo pensiamo. E se la psicoanalisi ci dice oggi che l’imperdonabile è la necessaria esperienza per guadagnarsi il “paradiso” non siamo poi così lontani dalla concezione della colpa in Eschilo, sebbene essa fosse collettiva e riguardasse e ricadesse non solo sull’individuo ma sulla sua stirpe e sull’intera polis. 

Talvolta mi domando se sia vero che i greci abbiano inventato tutto. Ultimamente mi rispondo che hanno inventato anche ciò che noi abbiamo dimenticato.

Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano