Mettiti in comunicazione con noi

Cultura

Intervista a Camilla Ugolini Mecca autrice del libro “Il destino dell’onda” Edizione Il Falò

“Il destino dell’onda” è il mio primo romanzo ed è nato semplicemente dalla mia passione per la scrittura, che mi accompagna da sempre.

Pubblicato

su

a cura di Fabia Tonazzi

credit photo Facebook

Camilla Ugolini Mecca è una donna forte e versatile al tempo stesso, attualmente counselor e facilitatrice in costellazioni familiari e sistemiche ha pubblicato recentemente un libro con Edizioni ll Falò “Il destino dell’onda”.

Qualcosa su di te e di cosa ti occupi, come mai hai realizzato proprio quest’opera?

Da 11 anni sono mamma. Lo scrivo per prima cosa perché di certo la nascita di mio figlio è l’evento che ha cambiato drasticamente la mia esperienza esistenziale, il mio modo di vedere la vita, anche il mio modo di scrivere. Attualmente abito a Verona, dove svolgo la professione di Counselor e di Costellatrice Familiare: in sintesi, applico un metodo grazie al quale cerco di comprendere cosa sia accaduto nella storia familiare originaria di una persona che ne ostacola il benessere, professionale o relazionale, e là vado a lavorare, per tentare di riportare ordine e armonia.

“Il destino dell’onda” è il mio primo romanzo ed è nato semplicemente dalla mia passione per la scrittura, che mi accompagna da sempre. Quando l’ho iniziato, non avevo un’idea precisa di quale storia volessi raccontare. Lentamente, pagina dopo pagina, l’intreccio e i caratteri dei personaggi si sono fatti da sé. E contemporaneamente ho compreso essenzialmente di cosa volevo parlare, ossia della mia convinzione che esista una profonda unione fra tutti gli esseri, al di là delle apparenti distanze o separazioni.

Cosa sognavi da piccola? C’è qualcosa che ti accomuna ai tuoi personaggi?

Non ricordo esattamente cosa sognassi da piccola… sicuramente sognavo molto ad occhi aperti, e inventavo storie – a cui un po’ credevo. Ma non ricordo quali fossero le mie aspirazioni, che sono divenute coscienti solo molto dopo, nel tempo. Per quanto riguarda i personaggi del mio libro, certamente vi è qualcosa di me. Non è stato voluto, ma penso sia inevitabile che alcuni aspetti di chi scrive respirino, per così dire, nei testi. Credo che il tratto comune tra i protagonisti del romanzo e la mia esperienza sia la voglia e la determinazione ad essere onesti con sé stessi, o almeno a provarci. Essere onesti e integri sui sentimenti, sui pensieri, sui comportamenti, il che comporta un costante lavoro su di sé, a volte difficile e molto doloroso.

Cosa ti piace di più del lavoro che fai?

Per quanto riguarda la mia professione, amo vedere le persone liberarsi dai vincoli del passato familiare, trovare piano piano la propria strada individuale senza per questo perdere il contatto e l’amore per il proprio sistema di appartenenza, riconoscere a sé stessi il diritto alla felicità. Riguardo alla scrittura, mi piace sapere che è una dimensione che esiste al di là della sua manifestazione concreta. Intendo dire che non sempre l’ispirazione si fa sentire, anzi, ma il contatto con la scrittura permane per me, in sottofondo. È una sorta di energia sottile, una presenza, come la connessione con una persona che si ama e che ci ama, anche se non la si vede.

Ti identifichi con un personaggio in particolare del tuo libro o no?

Direi di no, ma sono molto affezionata al personaggio di Helène, con il quale si apre il libro e che è il motore dell’azione. Mi piace perché è una donna forte e al contempo consapevole delle proprie fragilità. Ed è molto onesta. Sa guardarsi dentro, è seria. A volte ha paura, ma ne è cosciente e affronta comunque le situazioni che le si presentano, seppur inaspettate o destabilizzanti.

Credi che ci sia spazio nella società attuale per i tuoi protagonisti o si troverebbero spiazzati?

I miei protagonisti, per quanto segnati da una storia personale, sono inseriti nella realtà così com’è. Le loro vicende personali, il loro passato e il loro presente li spinge a compiere delle scelte, come avviene per tutti. E di fatto scelgono, prendono una posizione nei confronti della vita. Una posizione suscettibile di trasformazione. Penso che avere spazio nella società attuale ed esserne spiazzati non sia una contraddizione insanabile. Ciò che accade intorno a noi può non piacerci, certo, può trovarci impreparati e fragili, può richiederci talvolta delle scelte drastiche. Ma chiunque ha il diritto e anche il dovere di trovare il proprio spazio sociale, perché la società non è un’astrazione: siamo noi!

La cultura e i libri…Hai un riferimento in politica o nella società attuale che ti ispira fiducia?

A costo di risultare una snob, per quanto riguarda il mondo politico devo ammettere che è difficile che qualcuno mi ispiri davvero. Coloro che mi hanno ispirato sempre stima e fiducia purtroppo non ci sono più. Uno di questi sicuramente era Enrico Berlinguer, che morì quando io ero troppo giovane per avere una coscienza politica di qualche tipo. Un’altra persona che ho sempre profondamente stimato – e che non era un politico, ma conosceva la politica fin troppo bene – era Giovanni Falcone, di cui lessi una lunghissima intervista a cura di Marcelle Padovani, “Cose di Cosa Nostra”, che non ho mai dimenticato per lo spessore umano e per l’esempio etico che ne emergono. Francamente, trovo che oggi sia arduo trovare nel mondo politico personalità di questa levatura. O almeno io non ne vedo. Per quanto riguarda il mondo culturale, provo una grande stima per molti artisti, scrittori, musicisti o pittori che siano. Adoravo Camilleri, mi rattristo ancora pensando che non ci sia più, perché al di là della scrittura lo consideravo una persona di una profondità rara, che personificava un’Italia lontana nel tempo. E poi Pasolini, che è stato un autentico veggente. In generale, coloro per i quali provo rispetto e stima sono sempre personaggi un po’ defilati, senza tanti riflettori ad illuminarli. Mi piace la gente comune che rispetta ciò che la circonda, che lavora con amore, che riesce a vedere i bisogni degli altri esseri, che esprime con forza e gentilezza la propria voce. Magari non sono persone famose, ma se le incontro mi lasciano sempre qualcosa su cui riflettere.

Credi che si potrebbe fare di più in merito alla sensibilizzazione dei giovani nei confronti di eventi culturali o sei soddisfatta come scrittrice?

Di certo si potrebbe fare molto, moltissimo di più, e non solo verso i giovani. Il problema non è tanto investire nella sensibilizzazione, secondo me, quanto investire nella cultura in sé, cosa che gradatamente sta avvenendo sempre meno. Basta parlare con chi opera nel mondo culturale, in generale, per rendersi conto della povertà degli investimenti – e delle idee – in tal senso. E la situazione di emergenza sanitaria non ha certo aiutato, anzi. La cultura è un terreno fragile, è sempre l’ultimo baluardo ad essere protetto. Al contrario, nel nostro Paese, dovrebbe essere il primo punto di forza, visto che siamo circondati ovunque da storia e bellezza. Ma gli investimenti reali e costanti in tal senso sono troppo pochi e sono pericolosamente legati alle forze politiche in gioco, mentre la cultura dovrebbe essere considerata un patrimonio trasversale e indiscutibile. In qualche modo, però, è come se facesse paura. E questo perché, a mio avviso, la cultura fa pensare, ti pone interrogativi, ti costringe a confrontarti con le emozioni. In sostanza, produce esseri pensanti e vivi. E non sempre questo è considerato un vantaggio.

Per quanto mi riguarda, io mi considero una scrittrice in erba, nel senso che ho cominciato a pubblicare solo nel 2007 e sono molto contenta di come sono andate le cose per me. La mia esperienza iniziale è stata quella di passare attraverso i concorsi letterari. In Italia ve ne sono molti, alcuni sono molto seri, e permettono agli scrittori esordienti di proporsi in modo semplice e immediato e di confrontarsi con il giudizio dei lettori. Questo è positivo, in un Paese in cui la piccola editoria arranca e dove si legge molto poco. Ma torniamo a ciò che dicevo sulla cultura in generale. Penso ci si dovrebbe porre una domanda sociologica, oltre che culturale: perché le persone non leggono più?