Mettiti in comunicazione con noi

Cultura

Ma vuoi vedere che Banksy è più fesso degli altri?

Il legame tra arte e danaro è, ed è sempre stato strettissimo. Il primo resta tuttavia un segno fondamentale che l’uomo può lasciare e che testimonia la profondità e la contraddittorietà a suo modo bella, di ciò che siamo.

Avatar photo

Pubblicato

su

Credit foto Pinterest

di Rosamaria Fumarola

Il legame tra arte e danaro è un legame da sempre molto stretto. Ne sia prova il fatto che più d’uno, anche solo da semplice turista, di fronte ad opere antichissime quali gli affreschi minoici di Cnosso (2000-1450 a.C.) avrà avuto la sensazione che chi li abbia commissionati intendesse esibire non soltanto una certa idea di bellezza, ma anche la possibilità di poterla acquistare ed esibire dunque il proprio potere. Gli affreschi minoici e tutta l’arte antica, a differenza di quella moderna, ci parlano infatti molto di più di chi li ha voluti e posseduti che non di chi li abbia eseguiti, sebbene nel tempo sia giunto un momento nel quale questi ultimi hanno potuto apporre una sorta di firma che ne autenticasse la paternità. Nei vasi greci a partire dall’epoca arcaica ad esempio, su molti è scritto il nome di colui che lo ha realizzato o decorato.

Se però un collezionista di opere moderne esibisce un Cezanne lo fa ancora e sempre per ragioni che attengono a sé e solo marginalmente all’autore della tela ed in fondo, anche chi abbia la fortuna di visionare l’opera, resta in primo luogo colpito dal valore di essa sul mercato, prima ancora che dal suo messaggio. Non a caso molte delle collezioni più prestigiose di arte moderna appartengono oggi ad istituti bancari che hanno potuto permettersi di acquistare i singoli pezzi in esse contenute. 

Uno scossone notevole è stato dato  in epoche più recenti da artisti che, almeno a partire dall’800 con l’Impressionismo, hanno costantemente introdotto riflessioni critiche sempre più radicali, capaci di mettere in discussione e ribaltare visioni tradizionali di ciò che era considerata arte. Fino ad arrivare poi agli anni sessanta dello scorso secolo, durante i quali artisti come Piero Manzoni hanno provocatoriamente proposto al pubblico e messo in vendita la “merda d’artista”.  E come dimenticare, sempre ricordando Manzoni, le proprie impronte digitali apposte su uova sode che offriva ai suoi ospiti affinché le consumassero?

L’ elaborazione concettuale che accompagna  l’arte ne è oggi parte fondamentale ed elemento imprescindibile per comprendere non solo l’opera, ma il contesto che l’ha espressa. Indubitabilmente la riflessione su ciò che debba considerarsi arte è in gran parte affidata a chi l’arte la produce. Posto che genii della provocazione come Manzoni o Duchamp, hanno venduto le proprie opere a quel mercato che essi stessi tanto hanno criticato e che nei fatti testimonia il legame indissolubile al quale più sopra accennavo, esiste un terzo attore che svolge un ruolo determinante affinché il pubblico e gli investitori identifichino come opera di pregio un certo prodotto e cioè il critico. Il mondo ha sempre bisogno infatti di una qualche patente, di una sorta di certificato che lo garantisca  dall’alea che lo abita e contro cui dalla notte dei tempi combatte.

L’evoluzione però del linguaggio dell’arte figurativa è stata capace di produrre anche fenomeni come quello dell’artista inglese Banksy, autore di celeberrimi murales di denuncia e del quale non si conosce il volto, un autore dunque che respinge la personalizzazione di cui il mercato dell’arte mostra di avere sempre bisogno. I murales peraltro sono per loro natura destinati a perdersi e dunque possono davvero considerarsi arte povera, eppure nel 2007 una vicenda che ha riguardato proprio un’opera di Banksy, ha posto una serie di interrogativi a cui forse la maggior parte del pubblico, anche quello del writer, non era ancora preparato. La vicenda è narrata nel documentario del 2018 di Marco Proserpio “L’uomo che rubò Banksy”. Questa in sintesi la storia: Banksy nel 2007 assieme ad altri artisti raggiunse Betlemme dove, in supporto della causa palestinese realizzò sul muro eretto da Israele per segnare la separazione dei territori e su quelli di alcune case numerosi murales, uno dei quali raffigurava un soldato israeliano che chiedeva i documenti ad un asino. La prima delle numerose contraddizioni, forse solo apparenti, che caratterizzano la vicenda narrata, prende avvio dalla reazione negativa dei palestinesi all’opera.  L’ imprenditore Maikel Canawati, considerandola offensiva, decise infatti di tagliarla e venderla su ebay, per devolverne il ricavato in favore del popolo palestinese. Per quel che mi riguarda, ammesso che sia di un qualche interesse per chi legge, l’opera non è detto che potesse essere interpretata in modo univoco, anzi era suscettibile di almeno una seconda interpretazione diametralmente opposta alla prima e non presa in considerazione. Questa è però, come anticipato, soltanto una mia opinione. 

Il murale dell’ artista inglese venne effettivamente tagliato e trasportato in Scandinavia, in attesa di trovare un compratore disposto a pagare per il suo acquisto, che a tutt’oggi non si è ancora realizzato.

Il documentario sviluppa una riflessione interessante sulla street art, una forma espressiva che svolge oggi un importante ruolo nel veicolare contenuti che altrove non troverebbero posto, né raggiungerebbero il pubblico con la medesima efficacia. Le questioni sollevate sono ad esempio se un murale, che è per sua natura destinato a non sopravvivere ed è dunque effimero anche nell’intenzione dell’artista, possa essere trasportato in un luogo diverso per consentirne la salvaguardia o se da un punto di vista giuridico, quando apposto su di un muro, vada considerato proprietà di chi detenga il muro legalmente.

In questa vicenda il peso della questione economica risulta essere predominante, in primo luogo perché l’opera di Banksy era inserita in un contesto poverissimo, nel quale chiunque sperava di guadagnare qualcosa per sopravvivere, anche se si trattava della vendita di ciò che senza dubbio alcuno era considerato da tutti arte. 

Più volte nel documentario riecheggia la questione posta dai palestinesi sulla necessità di svolgere un ruolo ad essi più utile vendendo l’opera e devolvendone il ricavato in favore della loro causa. È legittimo chiedersi dunque se esista la possibilità di fruizione dell’arte laddove i bisogni primari degli uomini non trovino ancora adeguata soddisfazione. 

I mercanti d’arte sono dal canto loro sempre molto interessati alla vendita dei murales realizzati da grandi esponenti della street art,  per le quali ricchissimi collezionisti offrono  cifre da capogiro pur di garantirsene il possesso. Nel frattempo, come la vicenda narrata nel docufilm testimonia, tutti coloro che entrano in contatto a qualunque titolo con l’opera di Banksy sperano di ricavarci qualcosa. È legittimo allora domandarsi se il messaggio artistico abbia un valore secondario rispetto a come il pubblico è disposto ad accogliere un’opera.

Infine l’ultimo e forse il più importante degli interrogativi da porsi: lo scopo che Banksy e gli altri artisti si erano proposti con la realizzazione dei loro lavori è stato raggiunto? La risposta è no, tuttavia mi sia consentita in conclusione una riflessione personale e cioè che forse mai gli scopi che intellettuali ed artisti si propongono con il loro lavoro incidono sulla realtà stravolgendola secondo le finalità che in origine si proponevano,  essendo la realtà umana cosa complessa che sfugge per sua natura al dominio, se non quello che si sviluppa in un arco di breve tempo. Nonostante ciò, l’arte resta un segno fondamentale che l’uomo può lasciare e che testimonia la profondità e la contraddittorietà a suo modo bella, di ciò che da sempre siamo. 

Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano