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Cultura

Difendere la lingua è questione di democrazia

L’Italia è il quarto paese in Europa per abbandono scolastico, in pratica l’indice di istruzione medio della popolazione è più alto in nazioni dove le scuole a malapena sono state costruite, però siamo pieni di intellettuali smaniosi di modificare la lingua come se si trattasse del comune reso di un capo d’abbigliamento del quale siamo insoddisfatti, o un regalo di Natale non particolarmente entusiasmante. Nel belpaese dei paradossi anche chi è privo delle competenze minime pretende di avere più autorità in materia di linguistica dei linguisti stessi, dopotutto oggigiorno per laurearsi basta un post su Facebook arricchito con un paio di frasi ad effetto, mica bisogna accumulare delle conoscenze! Assolutamente! In fondo chiunque può atteggiarsi da nuovo Umberto Eco se si arma delle parole giuste. Eppure in realtà modificare una lingua è un’operazione rischiosissima, nonché difficilissima, col conseguente pericolo di distruggere secoli di evoluzione culturale. Basterebbe comprendere questo per considerare le tesi a sostegno della “schuwa” fortemente, anzi, tremendamente ignoranti, lontane dalla realtà, distopiche oltre che estranee alle vere necessità di chi avrebbe bisogno di vedersi garantita una reale inclusività, magari attraverso la concessione di diritti atti a tutelare la propria persona, non “un asterisco in una parola”, né tantomeno una “e” capovolta.

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di Alessandro Andrea Argeri

Fortunatamente tutti possono parlare, con addirittura la pretesa di legiferare, ma nessuno può esprimere la propria opinione se il parere è contrario a quello di qualcun altro: questa la chiamano “libertà d’espressione”, il motivo per cui difendere la lingua è diventata una questione di democrazia, perché non sempre “innovazione” è sinonimo di “progresso”, mentre l’allineamento di pareri è sintomo di un “totalitarismo di opinioni”.

Nella foto Villa Castello, biblioteca dell’Accademia della Crusca. Questa immagine, così come quella di copertina, è stata presa da Wikimedia Commons, pertanto sono entrambe di dominio pubblico.

di Alessandro Andrea Argeri

Andiamo per gradi. Negli ultimi tempi, mentre nei concorsi pubblici decine di candidati vengono scartati alle prime selezioni perché “incapaci di comprendere il testo fornito durante la prova di lingua generale”, ha preso piede l’utilizzo dell’asterisco, o talvolta della “schwa”, una vocale posta alla fine delle parole, per indicare nel discorso un pubblico più ampio di individui in virtù della “libertà d’espressione”.

Fin qui andrebbe tutto bene, se gli svantaggi, o per meglio dire i danni recati al linguaggio per mano della sterile etica, non fossero superiori ai benefici effettivi, riassumibili nell’appagamento di una minoranza fortemente esclusiva, a tratti molto simile, in alcuni casi ben più feroce nel dibattito, dello stesso nemico contro cui si prefigge di combattere: non un omofobo, non un’azione concreta contro l’inviolabilità della persona, ma una parola, ovvero un insieme di lettere, al cui interno è contenuta la storia, la cultura, l’evoluzione di un intero popolo, nonché le stesse capacità intellettuali di un individuo.

A tal proposito, per contrastare il fanatismo proveniente da una minoranza fortemente ideologizzata (constatazione perfetta ripresa da ilgiornale.it), un folto gruppo composto principalmente dai più importanti pensatori italiani, oltre che esperti di linguistica, ha lanciato una petizione contro lo scempio a cui si vorrebbe sottoporre la lingua, dalla quale è scaturita una “battaglia di civiltà” a tutela sia della cultura sia della libertà d’espressione, contro chi in modo marcatamente contraddittorio pretende di eliminarle entrambe per “affermare” la seconda.

Il professor Massimo Arcangeli, docente di linguistica italiana all’Università di Cagliari, argomenta molto esaustivamente nel testo: “Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche.

“I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “ləi”, e sostengono che le forme inclusive di “direttore” o “pittore, “autore” o “lettore” debbano essere “direttorə” e “pittorə”, autorə” e “lettorə”, sancendo di fatto la morte di “direttrice” e “pittrice”, “autrice” e “lettrice”. Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili. Nel latino classico “pictrix”, come femminile di “pictor”, non esisteva. Una donna che facesse la pittrice, nell’antica Roma, doveva accontentarsi di perifrasi come “pingendi artifex” (‘artista in campo pittorico’).”

“C’è anche chi va ben oltre.” spiega ancora Arcangeli “Gli articoli determinativi “il”, “lo”, “la”, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono “il”, poteva prevedere al maschile singolare la variante “lo”, si pretende che convergano sull’unica forma “lə”, e i rispettivi plurali (“i”, “gli”, “le”) che confluiscano in “l3″, col secondo carattere che non è un 3 ma uno schwa lungo. Entrambi i segni, lo schwa e lo schwa lungo, sono perfino finiti in ben 6 verbali redatti da una Commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia”

“Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la “u” in “Caru tuttu”, per “Cari tutti, care tutte”), che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività. Lo schwa, secondo i sostenitori della sua causa, avrebbe anche il vantaggio di essere pronunciabile. Il suono è quello di una vocale intermedia, e gli effetti, se non fossero drammatici, apparirebbero involontariamente comici. Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza.”

Le ambiguità legate alla “schwa”, non si sarebbero potute spiegare in modo più chiaro. Il professor Arcangeli è stato anche abbastanza riduttivo nel definire il fenomeno una “pericolosa deriva”, la quale apparare più come una manomissione delle parole, del pensiero, della libertà d’espressione in virtù di un’inclusività fortemente esclusiva. Come si può pensare infatti di garantire la facoltà di parola se i vocaboli vengono letteralmente eliminati?

Nell’elenco dei nomi dei principali promotori della petizione figurano anche Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, la scrittrice Edith Bruck, il filosofo Massimo Cacciari, lo storico Alessandro Barbero, tanti altri pensatori, giornalisti, linguisti di grande valore. Insomma, non proprio gli ultimi arrivati. La petizione può essere firmata al seguente link: https://www.change.org/p/lo-schwa-%C9%99-no-grazie-pro-lingua-nostra

“La lingua si evolve”. Sì, ma nei vocaboli, non nei suoi sistemi fondamentali. Ad esempio, se una parola diviene di uso comune, viene inclusa nel vocabolario aggiornato, come è accaduto nel famosissimo caso di “petaloso”, o nei più recenti “gender fluid”, “smartworking”, “green pass”. Tuttavia con l’inserimento di un asterisco si crea un’ambiguità nella parola, la quale determina a sua volta la stessa problematica nella frase, da lì nel periodo, nel testo, nel senso tutto del discorso.

Nel caso particolare della nostra lingua, l’italiano ha derivazione “neolatina”, ovvero deriva dal latino, da cui prende i sistemi da cui è composto il lessico, il sistema fonologico, la morfologia, la sintassi e la pragmatica, nel caso vi siano sia una versione scritta sia una orale, anche un sistema di scrittura, motivo per cui alle superiori si analizzano le “versioni degli autori latini”. Ogni costrutto, ogni parola, ogni soluzione stilistica infatti è inserita “ad hoc” per ottenere un preciso scopo, un effetto ben definito. Benché con gli anni il neutro latino, “esteticamente” più esplicito, sia andato quasi totalmente perso, è stato assimilato dal maschile, il quale non a caso si dice “inclusivo”.

Eppure in più occasioni Cecilia Robustelli, professoressa ordinaria di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, da anni collaboratrice dell’Accademia della Crusca, aveva spiegato come il genere grammaticale venga “assegnato ai termini che si riferiscono agli esseri umani in base al sesso. Il genere socioculturale, cioè la costruzione, la percezione sociale di ciò che comporta l’appartenenza sessuale, rappresenta un passaggio successivo”.

Poiché creare nuove “strutture” all’interno di un linguaggio significherebbe inventarne uno nuovo, quando si decide di considerare l’evoluzione di una lingua bisogna valutarne anche l’origine. Se vogliamo comunque impostare la questione sul piano etico-culturale dobbiamo tenere a mente come in una lingua sia contenuta la cultura, la tradizione, la storia di un popolo, pertanto una parola rappresenta una serie di evoluzioni susseguitesi nei secoli, quindi all’interno dei vocaboli è contenuta la possibilità di formulare un determinato pensiero, poiché sono presenti anche connessioni logico-concettuali. In tal modo, attraverso una riduzione delle parole si limitano anche le facoltà intellettuali, in pratica: se si gioca male con la lingua, si rischia di creare un danno direttamente al pensiero stesso.

Inoltre ogni linguaggio nasce innanzitutto dalla trasmissione orale, mentre una lingua contente lo “schwa” non potrebbe essere parlata, almeno non correttamente, quindi non sarebbe nemmeno classificabile in quanto “sistema di comunicazione”, anche perché oltretutto non potrebbe essere compresa né letta per via dei motivi appena espressi. Ancora, se letteralmente si vanno a “tagliare le parole”, si distrugge la struttura di una lingua, quindi anche la capacità di un individuo di pensare. Ha senso dunque, in virtù della libertà d’espressione, eliminare la possibilità di esprimersi, quindi di formulare un pensiero concreto?

Il problema può sembrare simile a quello espresso da Orwell per quanto riguarda la “neolingua” di “1984”, tuttavia ad esso si aggiungono le ulteriori difficoltà prima citate, ma la cui ripetizione è lecita, nelle capacità di riuscire a creare connessioni logico-concettuali presupposte all’interno di un linguaggio, le quali, se eliminate, vengono perse. Questo è il motivo per cui creare ambiguità non sarebbe “innovazione”, né “evoluzione”, ma “involuzione”.

Da qui si evince come il problema legato alla deformazione delle parole sia molto più grave di quanto si crede. Per riassumere: se una lingua la si conosce, poiché essa è collegata al pensiero e alla cultura, si è capaci di formulare determinati pensieri concreti, mentre se la si distrugge non si è capaci di formulare più un pensiero coerente. Non a caso “chi conosce bene la propria lingua sa pensare meglio”. Sicuramente, se un po’ tutti indietreggiassimo di un passo, alcuni anche di due, magari altri ancora addirittura di tre, quindi se la smettessimo di atteggiarci da sapienti detentori della verità assoluta, comprendessimo di non poter essere “tuttologi”, si potrebbe arrivare ad avere una vera forma di “libertà d’espressione”, da cui l’inclusività sarebbe necessariamente presupposta in quanto prova ontologica della stessa.

A seguito della pubblicazione della petizione, sui social si è scatenata una vera guerra mediatica, tra due punti di vista differenti, in cui pensatori esperti di lingua sono stati “giudicati” o meglio dire “offesi”, con epiteti non proprio inclusivi quali: “retrogradi”, “fascisti”, “omofobi”, più altri da non citare, in barba alla “libertà d’espressione” tanto millantata dagli stessi paladini del “politically correct”.

Ad ogni modo, avrei un’ultima domanda, un dubbio alquanto lecito come lo sono tutti gli interrogativi: dove sono i “rivoluzionari sovversivi”, quelli pronti a combattere con tutte le proprie forze per le libertà, le uguaglianze tra gli individui, i diritti, quando quest’ultimi vengono negati? Da una settimana gli studenti da soli protestano in piazza per una richiesta semplicissima, ovvero il diritto inalienabile, oltre che fondamentale, allo studio, oltretutto in sicurezza, libero dallo sfruttamento gratuito per le aziende, tuttavia nessuno riserba loro nemmeno un minimo di attenzione, non una parola per chi lotta per una causa concreta, anzi, si è cercato persino di descriverli come “scansafatiche” per via del malessere, giustificato o meno, legato all’introduzione della prova scritta all’esame di Stato, attraverso la solita narrazione stereotipata dei “giovani senza voglia di impegnarsi”. Eppure non una parola in difesa dei ragazzi, nemmeno da quanti sui social dichiarano fieramente di “combattere i canoni in virtù del progresso, contro una società arcaica, ancora legata ai vecchi schemi borghesi”. Non è che forse c’è un po’ di ipocrisia in alcuni, non tutti perché anche generalizzare è indice di inciviltà, di questi “grandi predicatori dei diritti”, “paladini della libertà”, armati di belli, splendidi ideali? Forse, se leggessimo di più, ma scrivessimo di meno, o perlomeno pensassimo prima di scrivere anziché scrivere tutto ciò che pensiamo, riusciremmo veramente a cambiare questa Nazione in meglio, la quale, avrà pure i suoi mille problemi, ma la lingua italiana non è decisamente tra questi.

(Piccola precisazione finale, per chi definisce il regredire un'”innovazione giovanile”: l’articolo è stato scritto da un ragazzo di diciannove anni, perché “i giovani” non sono tutti mentalmente annichiliti dal “politicamente corretto”, deleterio per libertà d’espressione, ancor più in un regime democratico in cui le parole “democrazia”, “Stato di diritto”, “diritti”, “libertà”, “uguaglianza” sono le più pronunciate.)

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).