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Quelli che citano l’elogio della leggerezza di Italo Calvino…

Se la vita deve essere vissuta come un party continuo a cui continuamente prepararsi, che spazio hanno le cose che festa non sono? Nessuno, restano ai margini senza che vengano elaborate, come le espressioni algebriche che a casa non eseguivamo, rischiando il giorno dopo un due del professore contando però sul fatto che potevamo non essere interrogati.

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La comparsa di un brufolo oggi è considerata da molti intollerabile. La qualità della vita potrebbe secondo costoro averne infatti nocumento. 

Ad una superficiale analisi questo è il sintomo di un’attenzione eccessiva per l’esteriorità, se non fosse che è in realtà la spia di qualcos’altro. 

Corriamo a curare il brufolo per partecipare alla festa, dove tutti sono felici. Anche i ragazzi assumono droghe per entrare ed essere più allegri. Non è contemplata la tristezza: non si beve per dimenticare, ma per essere più felici. Forse un tempo era sbagliato concepire il dolore in maniera diversa, forse era moda anche quella e dunque in parte inautentica, ma se la vita deve essere vissuta come un party continuo, a cui continuamente prepararsi, che spazio hanno le cose che festa non sono? Nessuno, restano ai margini senza che vengano elaborate, come le espressioni algebriche che a casa non eseguivamo, rischiando il giorno dopo un due del professore, contando però sul fatto che potevamo non essere interrogati. Ciò è dovuto al fatto che si vive molto più a lungo di quanti ci hanno preceduto, in una scatola nella quale il solo dovere che ci fa sentire parte di qualcosa è il consumo. Diktat altrettanto forti non ve ne sono. Il consumo è poi uno stimolo per tutti, anche per quanti hanno poco. Non è infatti importante quanto si spenda, l’importante è che lo si faccia anche col poco che si  possiede, come un criceto impegnato a girare piuttosto che a fermare la ruota. Siamo tutti criceti a cui è vietato ricordare che esistono la morte e la malattia. Gli scienziati ogni giorno scoprono farmaci e la tv ci dice che quando ci ammaleremo le cure saranno a nostra disposizione, così potremo continuare a cercare un nuovo abito per la prossima festa.

Eppure la sanità pubblica è quasi sempre un girone infernale e quella privata è deludente, ridotta al rango di prodotto da supermercato che con le misure umane ha ben poco a che fare. La festa deve farci dimenticare il dolore, ad esempio anche quello gratuito procurato da chi non fa il proprio dovere, come un infermiere che lega una paziente di ottant’anni al letto per non doverla accompagnare in bagno “sa, mica possiamo accompagnare tutti gli ammalati a fare i bisogni!” Anche quell’infermiere ha in mente infatti solo la festa, forse perché sospetta che un giorno in quel letto potrà trovarsi lui e che non avrà la forza o le parole adatte per convincere chi avrà di fronte ad essere rispettoso. Meglio che la morte venga dopo la festa, perché non è mai bella. Capire la morte può però avere i suoi vantaggi, come ad esempio il farci meno paura;  invece la sfuggiamo, pensando forse di non meritarla, come se invece la vita fosse un merito, nostro appunto. Niente peraltro sembra degno di essere approfondito: dobbiamo risolvere i problemi, farlo velocemente, come quando si preparano le uova al tegamino, mica capirli!  Ma la complessità che tutti ci portiamo dentro, dove va a finire allora? Se non può essere gestita e compattata come un rifiuto è essa stessa un tabù. Molti anni fa, l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, accusato di non accorgersi della crisi economica di cui era anche lui causa, si difese dicendo di vedere i ristoranti sempre affollati e che gli italiani non potevano perciò essere in uno stato d’indigenza. Si obiettò che i ristoranti non erano affatto pieni, ma la verità è che Berlusconi aveva ragione: i ristoranti erano pieni e lo sono anche adesso. Non c’è bisogno di avere un motivo particolare per festeggiare, lo si può fare sempre anzi, la regola è farlo sempre. E quando verrà il giorno di terminare, che cosa sarà, come lo si chiamerà quel momento? Assenza della festa, qualcosa di innaturale e fastidioso come il pagamento di una bolletta. Ma l’uomo da sempre ha sognato una vita nella quale non soffrire, perché fare adesso i moralisti? Perché obbligarlo a pensare alla morte, alla malattia, al dolore? Forse perché esistono e perché non comprendere la vita nella sua complessità è in qualche modo un’abdicazione ad essa, come quando nel medioevo, in attesa della fine del mondo ognuno cercava il piacere ed il divertimento per dimenticare la morte imminente.  Proprio il dolore cioè spingeva gli esseri umani nella direzione contraria.  Forse è una paura analoga a farci cercare lo stordimento a tutti i costi, o un mercato che non ha in questo momento alcun antagonista in grado di competere con il suo strapotere? Eppure in questa corsa a consumare, che prescinde dal bisogno, c’è un prezzo che forse saremo chiamati a pagare e che ci vedrà come al solito armati gli uni contro gli altri in una sorta di guerra civile, a spartirci le  briciole che cadranno dal tavolo dei pochi commensali, sempre servi di qualcuno. Ma per il momento viva la festa, la superficialità, la leggerezza. Non mancherà chi, a sostegno della tesi citera` l’elogio appunto della leggerezza di Italo Calvino, dando così prova inconfutabile di non averlo né letto, né capito. E pensare che forse il più grande attore comico italiano, Totò, soleva ripetere che solo la morte è seria…

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Rosamaria Fumarola 

Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano