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Cultura

Radiamo al suolo i teatri

L’idea di teatro cambia a seconda delle epoche, degli schemi socioculturali, delle idee dominanti. Per questo il problema della scarsa affluenza nei teatri italiani è molto più complesso di quanto non sembri, poiché è legato alla perdita, o alla possibile acquisizione, dell’unità nazionale.

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In copertina, teatro greco di Siracusa in Sicilia.

di Alessandro Andrea Argeri

L’idea di teatro cambia a seconda delle epoche, degli schemi socioculturali, delle idee dominanti. Gli studi antropologici ci dicono che non esistono società senza una qualche forma teatrale, a dimostrazione del bisogno di evasione dalla realtà, di ricerca dell’immaginario, di voler “essere altro”. Il teatro non è solo il luogo fisico, ma è soprattutto il tempio simbolico in cui ogni popolo ha codificato i suoi miti, ha rappresentato sé stesso con i propri valori, modelli sociali, psicologici, insomma il comune voler essere. Come scrive Luigi Allegri, “l’attore è il fulcro centrale di questa macchina antropologica”. Tuttavia è l’idea di teatro ad influenzarne il ruolo nonché la definizione.

Ebbene, nell’antica Grecia l’attore è un aedo, un cantore della società, in quanto il teatro è considerato un rito, una manifestazione fondamentalmente laica innestatasi in un contesto religioso. A Roma invece è visto come un “lusus”, un gioco finalizzato al semplice intrattenimento, da cui abbiamo ereditato la nostra moderna concezione di “spettacolo”. Nel Medioevo poi, con la caduta dell’Impero Romano, viene meno l’unità centrale dello Stato, dunque sparisce ogni punto di riferimento, quindi cessa di esistere anche una società ben definita.

Lo smarrimento si percepisce anche linguisticamente: si diffondono le lingue volgari, tuttavia fino all’VIII secolo molti sono ancora convinti di parlare latino. Poiché manca un’istituzione abbastanza stabile da avere la capacità di imporre un proprio modello culturale, viene cancellata la definizione stessa di teatro, infatti non vengono più costruiti edifici teatrali. Gli unici baluardi di teatralità sono i giullari, i quali però anziché interpretare un testo rendono per le strade lo spettacolo di sé stessi, dei propri corpi.

A partire dal XIII secolo in Europa iniziano a prendere forma i primi Stati nazionali. L’Italia invece rimarrà divisa fino al 1861. Il Rinascimento italiano è piuttosto l’epoca delle Signorie, grazie alle quali finalmente rinascono le architetture teatrali, perché qualsiasi governo, regime o istituzione ha bisogno di una base culturale su cui giustificare il proprio potere per legittimarlo. Non a caso le grandi feste da cui sono rinati i teatri erano dimostrazioni di prestigio, di forza, di celebrazione del principe.

Poi? In Europa il teatro si evolve, mentre in Italia le architetture rimangono ancorate al virtuosismo barocco, mentre gli attori alla tradizione giullaresca. Siccome gli interpreti non sono adatti, Vittorio Alfieri si lamenta di non poter rappresentare le proprie tragedie, pregne dei valori civili della nuova Italia. Altrove sorgono i vari Racine, Molière, Corneille, Shakespeare, Lope de Vega. Goldoni tenta da solo di avviare una riforma del teatro, ma questa rimane incompleta perché inattuabile dalle nostre parti. Altri autori, tra cui citiamo solo Gustavo Modena, falliranno nel tentativo di creare un teatro nazionale italiano, capace di unificare gli italiani in un’unica coscienza civile, perché non c’è lo Stato, dunque nemmeno veri teatri italiani, ma solo sporadiche architetture locali in confronto agli esempi nazionali europei. A prova di questo, i maggiori attori, scenografi, drammaturghi italiani si impongono all’estero.

A parte alcune eccezioni come il teatro greco di Siracusa o vari anfiteatri moderni, i teatri italiani del 2023 appartengono allo stile rinascimentale o barocco, dunque mostrano una concezione elitaria della società: chi è avanti non solo vede meglio, ma è anche il più benestante. Diversamente il teatro greco è stato definito dalla critica come “democratico”, poiché grazie alla forma semicircolare della platea ogni spettatore poteva vedere allo stesso modo di chiunque altro, indipendentemente dalla posizione in cui si trovava. Certamente i reperti archeologici registrano la presenza di posti privilegiati, solitamente assegnati alle più alte autorità della polis o agli orfani di guerra in segno di riconoscenza, tuttavia questo non inficiava la visione degli altri spettatori.

La questione è quindi la seguente: una cultura costruisce teatri quando vuole formarsi, affermarsi, identificarsi. A seconda di come li progetta mostra la propria concezione della realtà. Ebbene perché non costruire nuovi teatri, ma questa volta democratici? Ha ancora senso continuare ad avere dei teatri di concezione elitaria? Per questo propongo: radiamo al suolo, ideologicamente, i teatri vecchi, per costruirne di nuovi in cui possiamo riconoscerci tutti. Inoltre sulle scene rappresentiamo valori comuni, civili, moderni, identitari, grazie ai quali poter mettere da parte le nostre divisioni. D’altronde la parola “teatro” deriva dal greco “theaomai”, il cui significato è “io sono spettatore”. Perché il teatro siamo noi, non le luci soffuse o il sipario finemente ricamato!

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).