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Economia & lavoro

In un Paese chiuso, le fabbriche di armi funzionano

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di ROSA MANNETTA

Il primo caso di Coronavirus in Italia, si è verificato il 21 febbraio.

Questa data è stata comunicata da un team di ricercatori dell’Università di Milano e dell’Ospedale Sacco, che ha condotto l’analisi dei primi tre genomi completi, ottenuti dagli isolati italiani di Sars CoV2 e quelli isolati al Sacco il 27 febbraio. Il team comunica che “le analisi confermano l’origine cinese dell’infezione e che il tempo di origine del cluster analizzato, corrisponde a un periodo che precede di diverse settimane il primo caso evidenziato in Italia il 21 febbraio”. Il virus è comparso per la prima volta a Wuhan a dicembre. Secondo un gruppo di scienziati tedeschi che hanno pubblicato una lettera sul New England Journal of Medicin, un uomo, originario di  una cittadina vicino a Monaco, potrebbe aver diffuso il contagio in Italia, in quanto aveva partecipato a una riunione con dei colleghi di una azienda che si trova a 45 chilometri da Codogno. Ed ecco che poi è sorto il primo focolaio a Codogno e nuove infezioni in Lombardia e in Veneto. Il successivo racconto, è solo storia nel senso che l’11 marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato il coronavirus, una pandemia. In particolare, vi è stata la pubblicazione del Decreto della Presidenza del Consiglio, con dure restrizioni per le attività produttive in modo da circoscrivere il coronavirus. In questo contesto di limitazioni, le fabbriche di armi, possono rimanere operative. Questo è un fatto controverso: molte aziende sono rimaste chiuse. E perché la produzione di armi si considera necessaria? La produzione di armi doveva essere interrotta. Perché mettere a rischio la salute dei lavoratori nell’industria bellica, esponendoli ad un probabile contagio? Perché quando la gente deve vivere in questo periodo, chiusa in casa in tutta Italia e deve uscire solo in caso di necessità? Intervisto per telefono Silvana. Silvana dice: “Viviamo un momento difficile. Io esco solo una volta a settimana per la spesa. Rispetto la distanza di un metro da un’altra persona, lavo spesso le mani. Insomma, seguo le indicazioni del decreto del Consiglio dei ministri. La cosa che mi rende perplessa è che gli interessi di politica militare, prevalgano su tutto. Prevalgono anche sul coronavirus. Le armi non sono un settore essenziale. Bisognava chiudere anche le aziende belliche. Il virus sta seminando migliaia di morti nel nostro Paese e abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, di mascherine e di respiratori polmonari. Le armi, non servono”. Le parole di Silvana sono esaurienti. E’ riprovevole che con l’emergenza coronavirus, le fabbriche di armi debbano essere indispensabili. Dovremo sconfiggere il virus e uscire da questa sofferenza negli ospedali, dai drammi di chi muore senza conforto: noi ringraziamo l’abnegazione dei medici e degli infermieri. Tiziano Terzani scriveva: “Nessuno si porta a casa un’alba”. Speriamo di avere un’alba colorata.

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo