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Editoriale

C’è dissenso nel Paese

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di Lavinia Orlando

La decisione di CGIL e UIL di proclamare, per il 16 dicembre, l’astensione dal lavoro per (quasi) tutte le categorie lavorative è una delle poche belle notizie giunte da diversi anni a questa parte.

Un segno, seppur minimo, di dissenso e di coscienza critica, dopo l’inevitabile appiattimento dovuto alla pandemia e, soprattutto, mesi e mesi di governo di unità nazionale, l’astensione dal lavoro rappresenta quella boccata d’ossigeno di cui qualsivoglia Paese civile necessita.

E la boccata risulta ancora più ampia se solo si pensi allo stato dell’arte nell’era precedente al Covid, considerando il livello di dormiveglia sindacale – leggasi, di connivenza delle organizzazioni sindacali con i governi che via via si sono succeduti – raggiunto nell’ultimo decennio.

Il nostro Paese aveva bisogno giù da molto tempo di voci critiche rispetto alle politiche fiscali e del lavoro, non essendo accettabile che le uniche proteste ingaggiate da anni a questa parte fossero le manifestazioni antiscientifiche di chi è contrario a vaccini e green pass.

Tra i plurimi effetti negativi della pandemia, difatti, spicca il livellamento delle istanze provenienti dal mondo del lavoro. Imprenditori, lavoratori dipendenti, professionisti, autonomi, tutto il variegato e frastagliato mondo del precariato sono risultati uniti sotto la medesima tragedia del Covid. Tale circostanza, se in un primo momento ha generato un evidente sentimento di condivisione nell’empatia, è poi degenerata nella totale assenza di istanze critiche in ordine alle decisioni prese.

Tale piattume, accettabile fino alla fase acuta della pandemia, non aveva più ragione di esistere, anche e soprattutto considerando che la situazione sanitaria, per quanto ancora precaria, non è più quella dello scorso inverno.

In più, la presenza di Mario Draghi al governo, dipinto più come un dio in terra che come un Presidente del Consiglio, sembrava aver ancora di più anestetizzato la politica ed i sindacati.

C’è poi stato il risveglio generato dalle decisioni previste nella legge di bilancio in via di approvazione. La scelta di ridurre in maniera indiscriminata le aliquote IRPEF e tagliare l’IRAP, così agevolando maggiormente chi più ha, in senso totalmente inverso rispetto al criterio di progressività che dovrebbe caratterizzare, da Costituzione, il nostro sistema fiscale, ha dato il là alla decisione di alcune organizzazioni sindacali di dichiarare, in modo evidente, il proprio dissenso.

CGIL e UIL – con una CISL defilata per ragioni a dire il vero non chiarissime – lamentano, in realtà, anche altro, tra cui l’assenza di politiche del lavoro e l’ennesimo rinvio di una riforma del sistema pensionistico, oltre alla carenza di decisioni di carattere maggiormente strategico, con particolare riferimento al mondo del precariato e del lavoro femminile.

Trattasi di problematiche presenti da anni, mai prese in carico, se non nella misura di interventi spot, molto spesso più deleteri che altro, a fronte dei quali i sindacati avevano sostanzialmente taciuto, troppo legati ad un Partito Democratico che ha perso – o, forse, mai avuto – la giusta attenzione nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, oltre che orfani di forze politiche, di governo e di opposizione, attente alle problematiche care alla sinistra tradizionale.

Dunque, che sciopero generale sia, finalmente. E che rappresenti un primo momento di rinascita per una classe lavoratrice da troppo tempo sopita, sovente incapace di riconoscersi quale portatrice di interessi comuni e, dunque, neanche in grado di lottare per migliorare la propria posizione.

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