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Editoriale

Arrivederci al fine vita dignitoso ed alla cannabis legale

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di Lavinia Orlando

Se è vero che non tutto ciò che è popolare è anche compatibile con i principi vigenti nel nostro Paese, è altresì vero che le tematiche del fine vita e della depenalizzazione delle condotte che ruotano intorno alla cannabis sono argomenti su cui, già da anni ormai, si evidenzia una forte spinta dal basso volta a mutare la legislazione vigente.

In assenza di politici in grado di farsi carico delle due questioni, stante un Parlamento incapace di legiferare sulle tematiche, in presenza, soprattutto con riferimento al primo argomento, di un potere ecclesiastico fin troppo esuberante e di deputati e senatori ad esso costantemente genuflessi, la volontà popolare si è chiaramente espressa nel corso del 2021.

Così, oltre un milione di italiani hanno sottoscritto la proposta di referendum abrogativo del reato di “omicidio del consenziente” di cui all’art. 579 del codice penale. Oltre cinquecentomila italiani, inoltre, hanno firmato, peraltro in pochissimi giorni, per la proposizione del referendum abrogativo sulla legalizzazione della cannabis.

Ancora una volta, tuttavia, la volontà popolare è stata schiacciata. Con la decisione di inammissibilità delle due proposte, infatti, la Corte Costituzionale non ha solo buttato nel cestino la volontà di più di un milione e mezzo di italiani, ma ha imposto un sonoro arresto al processo di evoluzione legislativa del nostro Paese.

Obbligata giuridicamente alla sordità rispetto alla forte spinta popolare connessa alle due richieste, la Corte si è dovuta limitare ad una scelta compiuta, almeno apparentemente, in punto di diritto. Chiamata, come per tutti i giudizi di ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione, a valutare una serie di fattori, tra cui che il quesito proposto non riguardi leggi a contenuto costituzionalmente vincolato e che lo stesso sia chiaro, univoco ed omogeneo, la scelta della Consulta ha gelato i tanti che già presagivano una stagione illuminata per l’Italia che resta indietro anni luce sulle tematiche di cui si discorre.

È, invece, andata meglio ai sostenitori dei quesiti inerenti alla giustizia, cinque dei quali sono stati ritenuti, dalla Corte medesima, ammissibili. Così, nella prossima primavera, gli italiani saranno chiamati a decidere su: legge Severino e cancellazione della automatica incandidabilità, ineleggibilità e decadenza per parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci ed amministratori locali in caso di condanna; custodia cautelare, che, laddove vincessero i sì, resterebbe per i soli reati più gravi, mentre scomparirebbe in caso di rischio di reiterazione del reato; netta separazione, con riferimento ai magistrati, della carriera giudicante da quella requirente; cancellazione dell’obbligo dei magistrati che vogliano candidarsi per il Csm di raccogliere le relative sottoscrizioni; riconoscimento, anche ai membri laici dei Consigli giudiziari, di partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei giudici. L’unico quesito ritenuto inammissibile è quello relativo all’introduzione della responsabilità diretta dei magistrati nei casi di danni ingiusti cagionati a cittadini – che a legislazione vigente possono comunque rivalersi sullo Stato, il quale, a sua volta, può soddisfarsi sul magistrato in questione.

Lo si è precisato tante volte: se l’Italia ha potuto beneficiare di alcune evoluzioni giustappunto su tematiche particolarmente sensibili è proprio per il tramite di giudici illuminati e di una Corte Costituzionale al passo coi tempi. Così come sarebbe ingiusto dimenticare il tanto che di buono è stato fatto, non si può tacere la delusione raddoppiata che la Consulta ha generato in ben più di un milione di italiani.

In tanti già presagivano di potersi finalmente recare alle urne non per votare il meno peggio, ma per contribuire fattivamente al miglioramento della società in cui vivono. La Corte non l’ha consentito e, in attesa delle motivazioni scritte, al di là della conferenza stampa dal sapore giustificativo tenuta dal Presidente Amato, non resta che prendersela con noi stessi: se occorre utilizzare lo strumento referendario è perché il Parlamento non funziona adeguatamente, circostanza determinata esclusivamente da chi in quel Parlamento siede, mandato a ricoprire quell’incarico da quelli stessi cittadini che ora se ne lamentano.

Che questa, ennesima, lezione serva a tutti per il futuro, affinché si abolisca la politica del meno peggio e si impari a votare con scienza e coscienza, partendo dal presupposto che il vero voto utile è quello dato a chi davvero dimostri – e, soprattutto, abbia dimostrato in passato – di meritarselo.   

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