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Afghanistan e il contingente dimenticato al tempo del Coronavirus

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di NICO CATALANO

Mentre in Italia continuano le misure restrittive imposte dal governo Conte per contrastare la diffusione del covid19 e ogni giorno si susseguono impietosi i funesti bollettini redatti dalla protezione civile.

Comunicazioni istituzionali puntualmente foriere di quanto è ancora lontano l’inizio della tanto desiderata fase due, c’è una parte del nostro Paese dimenticata in queste settimane nelle lande desolate e desertiche dell’Afghanistan. Sono i militari italiani dislocati a ‘Camp Arena’ presso la città di Herat nell’estremo ovest del Paese Asiatico, circa settecentocinquanta nostri connazionali “consegnati” nei loro bunker “antitalebani” per proteggersi da un nemico invisibile quanto letale, quel Coronavirus sicuramente più subdolo, pericoloso e malvagio delle bombe degli stessi Talebani. Le nostre forze armate sono presenti in quel quadrante del mondo dal lontano 2001 in seguito alle operazioni militari che portarono all’occupazione dell’Afghanistan da parte di una coalizione internazionale, iniziativa resasi necessaria dopo i tragici eventi Newyorkesi dell’undici settembre. La presenza militare italiana fu inquadrata prima nella missione “Enduring Freedom” fino al 2006, successivamente è parte dell’operazione denominata “Resolute Support”. Scopo della missione è quello di fornire sostegno e formazione alle forze armate afgane, nonché partecipare alla costruzione di varie infrastrutture militari. Da circa un mese dalla base di ‘Camp Arena’ è impossibile entrare così come uscire, tranne per i pochi mezzi di servizio militare per la sicurezza perimetrale della stessa. Tutto questo è dovuto alla vicinanza delle base con l’Iran, uno dei Paesi maggiormente flagellati al mondo dal Covid 19, un luogo dove ogni giorno i morti e i contagi ormai non sono più stimabili dagli osservatori dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il tutto aggravato dalla pessima condizione sanitaria e di denutrizione in cui si trovava la popolazione Iraniana già molto prima della diffusione del Coronavirus, conseguenza del tremendo embargo voluto dagli Usa del presidente Trump che impedendo cure, rifornimenti alimentari e ogni altro tipo di aiuti alle popolazioni di quei territori, si sta dimostrando il migliore alleato del virus assassino. Una situazione che ha portato al collasso le frontiere del giovane stato afgano, letteralmente prese d’assalto da masse di disperati che in più riprese dal vicino Iran hanno sconfinato “in fuga” dal Covid e in cerca di cure e cibo. Un esodo che ha praticamente favorito la diffusione del patogeno nel Paese con le stime che parlano di circa seicentomila contagiati, un numero impressionante pari a circa il venti per cento della popolazione della provincia di Herat. A tutto questo si è aggiunta la beffa della presenza tra i militari destinati a dare il cambio all’attuale guarnigione italiana di positivi Covid ai tamponi, circostanza che ha portato lo Stato Maggiore della Difesa a rispedire indietro per sottoporre alla quarantena presso Pratica di Mare tutto il contingente. In un l’Afghanistan isolato, la paradossale situazione di un contingente militare bloccato, prigioniero di sé stesso, dimenticato ai confini del mondo e in attesa di un cambio previsto “forse” per giugno o luglio, a fronteggiare un nemico invisibile e immaginario, una condizione da moderno “deserto dei Tartari “mette in evidenza del come si sono dimostrate fuori dal tempo e dalla storia le politiche della comunità internazionale. Istituzioni globali che negli ultimi due decenni hanno sperperato risorse infinite in embarghi, armamenti sempre più sofisticati e missioni militari anziché privilegiare il sostegno a ricercatori e scienziati al fine di prevenire e contrastare la diffusione di pericolose pandemie. La missione in terra afgana costa solo allo stato italiano circa sei miliardi di euro all’anno, quasi un milione di euro al giorno, il tragico evento del Coronavirus potrebbe rappresentare un’opportunità  per ripensare e razionalizzare queste somme al fine dirottarle verso più utili forme di cooperazione civile internazionale, un nuovo umanesimo di portata mondiale in una nuova era di globalizzazione dei diritti e del benessere per l’intera umanità

Fonte della Foto: Il Mesaggero.it

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo