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Ultima chiamata all’Ue, le opzioni in campo

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di SIMONE DEL ROSSO

Il Consiglio Europeo del 27 marzo verrà ricordato come uno dei più drammatici della storia dell’Unione. Ai Capi di Stato e di Governo dei 27 Stati membri non sono bastate ben sei ore in conference call per riuscire a trovare un accordo unanime sulle politiche da mettere in campo per affrontare la crisi economica dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19.

Al termine dall’acceso incontro, è stato inevitabile il rinvio delle decisioni di due settimane, al termine delle quali la palla passerà all’Eurogruppo (organo che riunisce i ministri delle finanze dei 19 Stati membri che adottano la moneta unica), con il compito di proporre strumenti di politica economica straordinari in grado di far fronte alla crisi.

Ma per quale motivo il Consiglio Europeo si è tradotto in un nulla di fatto? E quali sono, ora, le opzioni in campo? Analizziamone una per una.

I corona-bond

Si tratterebbe di titoli di debito emessi da una istituzione europea per raccogliere risorse finanziarie sul mercato a beneficio di tutti i paesi dell’Unione, al duplice scopo di finanziare le spese legate all’emergenza sanitaria (potenziare il sistema sanitario nazionale) e di gestire la crisi economica e sociale (aiuti alle imprese, sostegno ai redditi di famiglie, lavoratori e meno abbienti, garanzie statali sui prestiti bancari ecc.). Tali titoli verrebbero garantiti dalla Bei (Banca Europea per gli Investimenti, istituto diverso dalla Bce e purtroppo meno conosciuto, che ha il compito di fornire finanziamenti per progetti che contribuiscono ad accrescere occupazione e crescita sostenibile nell’Unione) o, in alternativa, dal Fondo salva-Stati.

In sostanza, la garanzia da parte di una istituzione europea permetterebbe, a differenza della modalità consueta di indebitamento pubblico, di far accedere al credito i Paesi membri più fragili, con elevati rapporti deficit/Pil e debito/Pil, a tassi di interesse più bassi.

Questa opzione trova il parere favorevole di almeno 9 Stati membri dell’Unione, tra cui Italia, Spagna e Francia, ma anche l’opposizione dei cosiddetti “paesi nordici”, tra i quali Germania, Austria e Olanda, le cui economie sono caratterizzate da una crescita superiore in termini di Pil rispetto a quella italiana e da uno scarso indebitamento.

Questi Paesi “rigoristi” osteggiano la condivisione di un debito europeo, in quanto alcuni Stati potrebbero necessitare di un volume significativo di investimenti e il costo netto dei finanziamenti andrebbe a ricadere anche su quei paesi che non hanno alcun bisogno di risorse ausiliarie.

Per questo, tra le varie opzioni, quella dei corona-bond, sebbene la più suggestiva in quanto per la prima volta i Paesi membri farebbero ricorso all’istituzione di un debito comune europeo (che sarebbe un primo passo verso un assetto federale fiscale e di bilancio), risulta la meno praticabile, almeno in tempi brevi, salvo colpi di scena.

Infatti, i Paesi nordici (paesi core) temono che il corona-bond, al termine della pandemia, possa porre le basi per la costituzione di Euro-bond.

La differenza sostanziale tra i due titoli è che il primo sarebbe utilizzato per finanziare specifici progetti di livello europeo, finalizzati al sostegno dell’occupazione e alla transizione ecologica verso un modello economico sostenibile.

Il secondo, invece, potrebbe essere utilizzato per “mutualizzare” i debiti pubblici, ovvero per condividere il debito di tutti gli Stati membri dell’Eurozona in modo da distribuirne il rischio e da abbassare la media dei rendimenti dei titoli di stato nazionali.

Il ricorso al Fondo salva-Stati tout court

Come già detto, una proposta in campo è quella di far emettere corona-bonds dal Fondo salva-Stati in alternativa alla Bei.

Nelle ultime settimane è circolata un’altra opzione, ovvero il ricorso al Fondo salva-Stati secondo il suo attuale funzionamento, ma con un allentamento delle condizioni di accesso alla linea di credito precauzionale per i Paesi in difficoltà (ad esempio, il rispetto delle regole del Patto di Stabilità e Crescita, sospeso dalla Commissione Europea per affrontare l’emergenza) al fine di poter ottenere l’intervento della Bce attraverso lo strumento delle Omt (Outright Monetary Transactions).

Le Omt sono state introdotte nel 2012 e hanno fatto seguito al noto discorso di Londra, tenuto da Mario Draghi, il 26 luglio alla Global Investment Conference, in cui Draghi pronunciò il famoso “whatever it takes”.

Le Omt consistono nell’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di stato a breve termine, emessi da paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata, identificata dal fatto che il paese in questione abbia avviato un programma precauzionale, per l’appunto, con il Mes.

Le Omt avrebbero l’effetto di impedire tensioni sui mercati finanziari, evitando l’aumento dei tassi di interesse e consentendo allo Stato di finanziarsi a condizioni economicamente sostenibili.

L’intervento della Bce

L’Osservatorio conti pubblici italiani stima che oltre due terzi dei titoli emessi dallo Stato italiano nel resto del 2020 potranno essere acquistati dalla Bce, nell’ambito del programma di acquisto titoli di 750 miliardi, denominato PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme). Gli acquisti si sommano al programma già stabilito in precedenza che ammontava a 300 miliardi di euro, per un totale di 1050.

Di questi, circa 180 miliardi potrebbero andare all’Italia, sulla base della capital key (la c.k. è la regola di suddivisione degli acquisti di titoli da parte della Bce tra i Paesi membri dell’Eurozona, in proporzione alla quota detenuta da ciascun Paese nel capitale della banca centrale). Ai 180 vanno aggiunti gli acquisti di titoli italiani già detenuti dalla Bce che andranno a scadenza durante l’anno (che ammontano a circa 35 miliardi), per un totale di 215 miliardi (oltre il 12% del Pil). Un aiuto molto importante che ha decisamente invertito l’orientamento della Bce, dopo il caso Lagarde.

Ultima chiamata all’Ue

Mentre Draghi è intervenuto sul Financial Times esortando l’Europa a fare ricorso a tutti gli strumenti disponibili, a partire dall’aumento del debito pubblico per proteggere imprese e lavoratori, l’Unione si trova impantanata tra divisioni e ostruzionismi.

Con il passare delle settimane la fiducia dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni europee sta calando vertiginosamente. Ecco perché l’Ue è all’ultima chiamata. Serve un colpo di reni, un’intesa politica, strategica e solidale, come quella che ci fu nel Secondo dopoguerra, che permetta, dopo anni di errori e promesse, di dimostrare che l’Europa c’è, che l’Europa esiste. Altrimenti il sogno degli Stati Uniti d’Europa verrà affossato per sempre.

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo