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Oasi Culturale

Un Oscar agli indignati

Benvenuti su “Oasi Culturale”, rubrica de ilsudest.it a cura di Alessandro Andrea Argeri e Sara D’Angelo. Oggi proponiamo una riflessione sulle premiazioni degli Oscar, nonché degli attacchi dell’estremismo woke a un ottimo Brendan Fraser. Se vi va, scriveteci: redazione@ilsudest.it/alexargeriwork@gmail.com

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di Alessandro Andrea Argeri

Alzi la mano chi non ha sentito parlare di Oscar in questi giorni. Ecco! In sunto: dal 2019 ogni anno sbanca un orientale indipendentemente dalla qualità del film, infatti sette statuette sono andate a “Everything Everywhere All at Once”, “di tutto ovunque tutto in una volta” è la traduzione italiana migliore per il viaggio onirico sotto acidi realizzato dai Daniel’s. Nel mentre però c’è stato spazio anche per gli altri, ad esempio per l’intervista di uno Huge Grant tanto scocciato quanto più preparato dell’intervistatrice. Nessuna moglie è stata insultata, dunque nessun comico è stato schiaffeggiato per una battuta di cattivo gusto.

Al netto di tutto questo, il giudizio migliore sulla serata delle ambite statuette dorate arriva da Paolo Mereghetti sul Corriere: “Forse bisognerebbe dividere gli Oscar in due: quelli che vengono dati cercando di rispettare le qualità in campo e quelli che invece vogliono contenere un messaggio, un qualche tipo di risarcimento o di indennizzo. E mai come quest’anno, per la 95ª edizione del premio, questa distinzione è stata evidente, quasi violenta direi.”

Veniamo però alle questioni veramente serie, quelle di una notevolissima rilevanza perché riguardano la “libertà d’espressione” (di chi?), i “diritti” ottenibili con la censura (quali?), le crociate ideologiche combattute sui social network (con quale risultato?). Ebbene a sorpresa su un Austin Butler favoritissimo Brendan Fraser ha vinto l’Oscar come miglior attore protagonista per una toccante, ma anche perfetta, interpretazione di Charlie “The Whale”, professore di lettere affetto da obesità in cerca di un riscatto prima della morte. Avvertenza: certamente il film meritava di più alle premiazioni, infatti noi ne consigliamo la visione, però non è adatto a cuori deboli in quanto il racconto di un dolore tanto esplicito colpisce duramente gli animi più sensibili.

Il film ha tuttavia alimentato polemica il ricorso alla “fat suit”, una tuta artificiale realizzata attraverso un’opera di sofisticatissima ingegneria grazie alla quale Fraser è riuscito a trasformarsi in una “balena”, “The Whale” per l’appunto, di circa duecento chili. Ebbene il suo uso sarebbe un “tentativo di ridicolizzare l’identità di chi è veramente omosessuale e in sovrappeso”. Evidentemente secondo gli amanti dell’estremismo woke l’attore protagonista avrebbe dovuto essere veramente obeso, gay, essenziale per ragioni di marketing, segregato in casa, ma soprattutto gravemente malato, perché l’obesità è una malattia, al di là delle opinioni sui giudizi estetici. “Il problema è il grasso finto”, dunque Fraser avrebbe dovuto presentarsi sul set con la bombola d’ossigeno e il deambulatore, esattamente come il personaggio da interpretare.

Il film contiene tanto altro, ad esempio il legame ritrovato di un padre assente con la figlia adolescente o un percorso interiore difronte al quale un po’ tutti finiamo per rispecchiarci, indipendemente da quanto siamo pronti per la prova costume. Purtroppo però come spesso accade il buono è stato oscurato dalle polemiche di chi gode ad indignarsi. Nel momento in cui si intende l’arte come identificazione la si fraintende. I più grandi autori, dai tempi di Aristotele fino ai nostri, non hanno mai ritratto il vero, bensì il verosimile. Oltretutto, se nel teatro non si può più “fingere di essere”, qual è lo scopo degli attori, i quali sono interpreti per definizione? Ad ogni modo, mi tocca dare una brutta notizia: nemmeno il pinocchio di Del Toro è un vero bambino toscano di legno. “Mio Dio! Dove andremo a finire…”

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