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di BARBARA MESSINA

Dalla cravatta alla felpa e si tornasse… alla politica?


In un periodo storico dove l’apparenza ha più importanza dei contenuti anche il momento delle dimissioni di un Leader politico sarà ricordato più per il gesto simbolico che l’ha accompagnato che per il discorso che l’ha preceduto, trasformando un gesto politico in un  evento dove la politica lascia spazio alla comunicazione e viceversa.

Orfani di simboli, di ideologie e partiti, negli ultimi venti anni, ci siamo abituati ad un sistema politico dove tutto è comunicazione, ogni gesto, ogni azione, ogni oggetto ha un significato. La comunicazione non verbale ha negli anni acquisito un importanza molto forte, rappresentando un modo diverso per porsi vicino alla gente o di approcciarsi alle istituzioni.  Ecco allora la comparsa delle felpe di Salvini e le cravatte di Di Maio, i maglioncini di Zingaretti e le giacche “over – size” della Meloni, che oltre a divenire un segno distintivo vengono usati per lanciare  un messaggio agli elettori.  Se Di Maio, da Leader politico del M5S, il partito, pardon il movimento che partiva dai “VaffaDay”, la cravatta non la toglieva neanche quando si sedeva a tavola con i parenti più stretti, Salvini le felpe le indossa sempre sia da Ministro, innescando una valanga di polemiche e distinguo, che ai comizi .

La cravatta, diventa così, per Luigi Di Maio un marchio di fabbrica, un segno distintivo, un modo per raccontarsi e accreditarsi al mondo come Leader credibile e moderato di una forza politica arrivata alla ribalta del panorama politico sull’onda della protesta, guidata al suo esterno da un comico che, diciamocelo, aveva molto da ridire e recriminare alla sinistra italiana. Nel 2013, questo giovane dal look “rassicurante” e dai modi garbati viene indicato come l’uomo con cui si può dialogare, l’ala più istituzionale di un “pericolo” che deve essere scongiurato, il grimaldello per traghettare il M5S dall’opposizione alla maggioranza.  Spogliarsi di quella cravatta diventa così un gesto simbolico, un modo per dire ho compiuto la mia missione, un modo per chiudere con le polemiche interne al Movimento. Di Maio, nel frattempo divenuto Ministro degli Esteri, spogliandosi della cravatta non solo lascia la Leadership del movimento ma, forse, si slega dallo stesso e da alcune scelte che non ha condiviso e che ha dovuto accettare, mandando segnali diversi  di distinguo mal sopportati e sicuramente non ascoltati.

“In questi anni ha contraddistinto il mio operato da capo politico (dice slacciandosi la cravatta)…. Per me ha sempre rappresentato un modo per onorare la serietà delle istituzioni della Repubblica e il contegno che deve avere un uomo dello Stato. Oggi simbolicamente la tolgo qui davanti a tutti voi. Grazie a tutti. Vi abbraccio. E vi voglio bene. Buona fortuna. Ne avremo tutti bisogno”, queste le parole del Leader nel momento di lasciare. Un gesto plateale, un gesto d’impatto ma sicuramente un gesto non “originale”, come infatti ricordava Vittorio Sgarbi, in una recente intervista, è un gesto identico a quello di Di Pietro quando a fine 1994 si tolse la toga, in diretta TV, per dimettersi dalla magistratura, un gesto di cui si capiranno i motivi solo nei prossimi mesi, quando sarà maggiormente delineato il nuovo quadro politico e le dimissioni  Di Maio a due giorni da elezioni regionali  importanti avranno finalmente un senso.

Di Maio in contrapposizione a Salvini, la cravatta in contrapposizione alle felpe, quelle felpe che per i critici di moda e di costume sono “impresentabili e inguardabili”,  indossate da Salvini sono divenute oggetto di studio da parte degli esperti di comunicazione, contribuendo a sottolineare un passaggio, un’appartenenza a “ripulire” l’immagine del Leader Leghista, “sdoganandolo” anche al Sud.  Salvini, ha trasformato e rivoluzionato la propria strategia comunicativa sottolineando con  la forza dell’immagine la propria azione politica. Ogni gesto, ogni felpa, ogni azione, dalla stretta di mano all’anziano reduce, al mettersi alla guida della ruspa, dal braccialetto del Milan, alle magliette con il nome delle città, finanche il rosario regalatogli da “una simpatica nonnina a Pontida”  servono a indicare un modo di essere, che nonostante l’apertura alle regioni del Sud, continua a essere profondamente leghista. Salvini, con i propri simboli, da un lato tranquillizza la base leghista,  e dall’altro prova a stabilire un feeling con il possibile elettore, che prima lo riconosce come vicino a se, poi ne coglie il messaggio schietto e diretto e infine lo vota, riuscendo nel bene e nel male a creare empatia.

Empatia che non è riuscito a creare intorno a se Matteo Renzi, nonostante  una squadra imponente di esperti di comunicazione, l’immagine creata puntando ad un’icona di stile come John F. Kennedy, (quando era presidente del Consiglio furono ideati servizi ad hoc per Vanity Fair e Vogue Italia)  invece di infondere l’immagine del Leader giovane che si interessa al proprio paese finirono per creare l’immagine del “belloccio” e effetto fu negativo, se non deleterio.  Renzi fece l’errore di guardare troppo ai politici e alla comunicazione politica americana, alle grandi famiglie politiche americane ai Kennedy, ai Clinton agli Obama niente di più sbagliato l’elettore medio italiano ha bisogno di rassicurazioni e non di sogni, vuole sapere se pagherà  il ticket sanitario piuttosto che vederlo Washington a cena con gli Obama, vuol veder sbloccati i concorsi pubblici piuttosto che veder abrogato l’art.18 in favore di un JobsAct che crea instabilità.

Stabilità e sicurezza che sperano di trasmettere su poli opposti Giorgia Meloni e Nicola Zingaretti, l’una che non nascondendo i chili di troppo lasciati dalla gravidanza ribadisce che una donna può essere mille cose, fare mille cose e farle bene; l’altro che indossando il maglioncino blu “d’ordinanza”, che tanto si ispira a Marchionne, tenta di accreditarsi in quella sinistra “radical chic” che ancora lo guarda con diffidenza.

I risultati al momento sembrano premiare entrambi. Il Segretario del PD porta prima il partito al governo dopo il “terremoto” estivo e domenica, alla fine di una campagna elettorale con poche luci e tante ombre, inverte la serie di sconfitte riuscendo a riconfermare Bonaccini alla guida dell’Emilia Romagna. La Leader di Fratelli d’Italia, a sorpresa, viene prima  indicata dal TIMES fra i 20 personaggi che potrebbero plasmare il mondo e poi fa volare il proprio partito all’8,59% in Emilia Romagna e 10,9% in Calabria.

Se una cosa ci insegnano le elezioni regionali di Emilia Romagna e Calabria di domenica scorsa è che gli italiani sono stanchi di spot, di tweet, di grida televisive, servizi patinati e  possa piacere o no nelle loro diversità amano Leader che sanno parlare alla loro pancia, piace Salvini, piace la Meloni, non piace più Di Maio mentre a sinistra si cerca ancora un Leader che sappia unire e non dividere che sappia raccogliere consensi non sulla paura dell’altro ma su programmi ed idee di sinistra. Quello che emerge chiaro, per chi ha osservato con occhio attento la tornata elettorale appena conclusa, è  la vittoria di Bonaccini e della Santelli, non tanto dei partiti che li sostengono, entrambe le vittorie, infatti, nascono da una campagna elettorale improntata su temi regionali, vicina alla gente, fra la gente, che ha lasciato la politica nazionale ai leader nazionali. L’errore sia di Callipo che della Borgonzoni è l’essere stati risucchiati in meccanismi e spot che avevano l’intento di rafforzare i propri partiti in ottica nazionale ma che non davano risposte o rassicurazioni ai cittadini di quelle regioni.

Pensare che la battuta d’arresto di Salvini in Emilia sia una sconfitta sarebbe però un errore madornale anche perchè come ben ha spiegato Massimo Cacciari in diretta a “otto e mezzo”: “Salvini è stato sconfitto sul piano personale ma da qui a proclamare vittoria c’è il mare di mezzo. Si è evitato il naufragio perché perdere in Emilia Romagna sarebbe stato come la caduta di un piccolo muro…..Il valore simbolico di una sconfitta in Emilia Romagna, per il PD sarebbe stato traumatico, però da qui ad arrivare ad un porto sicuro la strada è lunga…Salvini, governa in tutto il Nord, volete scherzare… Sconfitto di che?”

Forse, per la prima volta, se proprio vogliamo trovare uno sconfitto, lo possiamo trovare in un certo modo di far politica,  sconfitta è  la politica dei simboli, delle felpe, delle cravatte, dei maglioncini o delle pochette (ndr il premier Conte) anche se ancora i partiti non sembrano rendersene conto del tutto la gente ha premiato chi ha saputo spiegare un’idea, chi ha saputo fare del buon governo la propria firma, chi ha voluto, fortemente voluto fare da sé per stare vicini ai propri conterranei, la battaglia per il governo del paese, come ha giustamente evidenziato Cacciari è tutta da giocare dall’una e dall’altro fronte.

Chissà che effetto avrebbe una tribuna elettorale dove i contendenti fossero oscurati e con le voci camuffate, chissà se privati degli esperti di comunicazione i politici italiani sarebbero in grado di convincerci sui temi indicando un’idea di paese, facendo realmente politica….è un’idea assurda ma credo avrebbe un effetto dirompente in quanto dopo anni si tornerebbe finalmente a parlare di temi concreti e non di accuse o ripicche reciproche

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo