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Quei tanti licenziamenti di cui non si parla

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di Lavinia Orlando

Volendo trovare un aspetto positivo tra le conseguenze della devastante pandemia che ci attanaglia da ormai un anno e mezzo, non si può non citare il blocco dei licenziamenti.

La misura, varata il 17 marzo 2020 dal tanto vituperato governo Conte e prorogata fino al 30 giugno 2021, è stata revocata quasi totalmente, a partire da luglio, dall’attuale esecutivo, c.d. dei migliori – e guai ad ometterne tale definizione.

Inutile precisare l’ovvio. La cancellazione della tutela è stata fortemente voluta da Confindustria, che continua ad avere un’importante influenza nelle scelte intraprese dai governi italiani. Infatti, sebbene sia parso non correre buon sangue tra il governo Conte e l’associazione italiana delle imprese manifatturiere e dei servizi, è risultata abbastanza evidente la forte moral suasion esercitata dall’Associazione in questione circa la mancata istituzione della zona rossa in quella parte di Lombardia che fu la prima ad essere colpita dall’epidemia. 

Allo stato attuale, tuttavia, la liaison sembra essere più forte che mai, tanto da aver condotto alla scelta di rendere nuovamente possibili i licenziamenti.

L’esecutivo Conte aveva optato per impedire i licenziamenti individuali o plurimi per giustificato motivo oggettivo – ossia, per scelta del datore di lavoro, ad esempio in caso di crisi economica – ed i licenziamenti collettivi, restando sempre possibili le interruzioni del rapporto lavorativo legate ad altre ragioni – per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, solo per citare le fattispecie più frequenti.

A partire dal mese di luglio, invece, complice il silenzio quasi generalizzato, il datore di lavoro gode di piena libertà nel licenziare. Questo vale per tutti i settori, tranne che per tessile e correlati, per cui il divieto di licenziamento varrà fino al 31 ottobre 2021, con conseguente estensione della cassa integrazione gratuita per gli imprenditori – trattasi degli ambiti ritenuti ancora nella morsa della crisi generata dalla pandemia.  

Le conseguenze di quello che può essere definito un vero e proprio liberi tutti non sono, al momento, note e, a parte qualche vicenda un po’ più mediatica, si parla ben poco della questione, circostanza che equivale a ritenere, nell’opinione collettiva, gli effetti della revoca del blocco dei licenziamenti alquanto irrilevanti.

La realtà, tuttavia, è nettamente differente. Da un mese a questa parte, sono numerosissimi i licenziamenti di cui si ha notizia – in ultima pagina – in lungo ed in largo per il Paese: Gianetti Ruote, Gkn Driveline, ex Embraco, Whirlpool, Abb e si potrebbe andare avanti ancora a lungo. E questo continua ad avvenire nonostante l’accordo siglato tra Confindustria, sindacati conferederali e governo, che prevede che le aziende, prima di risolvere il rapporto, debbano esaurire tutti gli ammortizzatori sociali a loro disposizione – accordo, firmato alla fine di maggio e già sovente disatteso, giustappunto da aziende affiliate a Confindustria.

I sindacati, peraltro, avevano proposto soluzioni alternative prima di giungere all’estremo dello sblocco dei licenziamenti, ma sono rimasti, ovviamente, inascoltati. Confindustria e tutte le forze politiche che portano innanzi il principio della supremazia del mercato sono, tuttavia, netta maggioranza nell’attuale governo, con risultati che non stanno tardando a giungere.

La corretta lettura della situazione, infatti, è una e solo una: la misura che aveva fortemente tutelato il mondo del lavoro, impedendo un autentico disastro, è stata giudicata innaturale rispetto alle leggi di mercato – leggi sulla cui efferatezza, peraltro, si potrebbe scrivere un trattato – ed è stata eliminata.

Il dio mercato continua, imperterrito, a dettare legge. Con buona pace di chi continuava a ripetere che la fine della pandemia avrebbe restituito un mondo migliore. La rinascita felice è lungi dal far parte della realtà post-covid.