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Reddito di cittadinanza, la realtà raccontata da chi la vive

Reddito di cittadinanza: incentivo a non lavorare o ammortizzatore sociale?

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Vignetta satirica offerta dai ragazzi di “vignettistiperlacostituzione”, opera di Kutoshi Kimimo.

di Alessandro Andrea Argeri

Il 21 giugno dello scorso anno su questo giornale scrivevo un articolo dal titolo un po’ provocatorio: “I disoccupati non vogliono lavorare”. Sembra un paradosso, effettivamente lo è. Eppure è la narrazione tossica di una parte dell’attuale classe dirigente, sempre propensa ad alimentare l’odio sociale tra i cittadini per sopperire alla mancanza di idee concrete.

Oggi vorrei riportare la testimonianza di “A.B.”, una ragazza ritrovatasi improvvisamente disoccupata, “salvata” dall’indigenza dal reddito di cittadinanza, perché la realtà va raccontata attraverso la voce di chi la vive.

“Tutti parlano del reddito di cittadinanza per sentito dire ma nessuno sa davvero chi c’è dietro questo sussidio. Vorrei quindi spendere due parole a riguardo visto che la mia famiglia lo percepisce. Iniziamo con la crisi del 2009 dell’edilizia. Mio padre perde il lavoro, io devo abbandonare gli studi. Ero al secondo anno di scienze motorie. Inizio a lavorare in un bar a 25 euro al giorno, nel frattempo mio padre si destreggia tra pseudo-imprenditori che lo fanno lavorare un paio di mesi e poi non lo pagano, e lavoretti per la campagna, e così si va avanti. Mia sorella comincia a lavorare ogni tanto nel bar dove lavoro io ma la paga è poca, le spese sono tante e a un certo punto rimaniamo senza corrente per un mese. L’unico ente che ci dà una mano è la Caritas. Poi mia sorella viene presa con Garanzia Giovani in un negozio di scarpe. Ma finiti i 6 mesi arrivederci e avanti il prossimo. Io vengo presa a fare il servizio civile, ma 400 euro sono davvero poche per 5 persone quindi rimango comunque appoggiata al bar che è la mia ancora di salvezza fino alla pandemia. Ad un certo punto riesco a fare 3 lavori: barista la mattina, dalle 8 alle 13; dalle 15 alle 17 aiuto un sarto vicino casa; dalle 17 alle 20 corro a fare la babysitter. A quel punto ci viene in aiuto il reddito di cittadinanza. Riusciamo finalmente a respirare e ad avere una vita più o meno normale. Mia madre riesce a pagarsi una dentiera, perché a 55 anni dopo un fibroma aveva perso tutti i denti in bocca e ovviamente lo Stato la dentiera non te la passa. Io continuo la mia ricerca per un lavoro in regola. Porto il curriculum in una pasticceria, vengo presa per la prova, il terzo giorno sembrava cosa fatta ma quando dico che percepisco il reddito di cittadinanza e stavo solo spiegando che poteva avere degli sgravi sulle tasse, la responsabile di colpo cambia atteggiamento. Comincia ad umiliarmi davanti agli altri lavoratori, con ogni genere di offesa alla mia dignità di disoccupato in cerca di lavoro. Penso sia stato il giorno più brutto della mia vita, il tutto solo perché percepivo il reddito di cittadinanza. Poi arriva la pandemia: tutto fermo. L’estate scorsa mi rimetto alla ricerca e a settembre trovo un posto da babysitter per un’imprenditrice che non mi mette a regola, ma mi dà 400 euro mensili (visti una sola volta). Ero diventata la loro schiavetta per 10/12 ore al giorno: a febbraio non reggo più e me ne vado. Prima di Pasqua mi si presenta l’opportunità di lavorare per un mini-market part-time 500 euro al mese ed è il mio primo contratto a 33 anni. Adesso sono abbastanza felice, ma se non ci fosse stato il reddito di cittadinanza non so in quali condizioni la mia famiglia si sarebbe potuta trovare dopo la pandemia. Mio padre a gennaio a 64 anni finalmente potrà andare in pensione dopo più di 10 anni che gli sono state sbattute le porte in faccia per l’età. Vi auguro di poter vivere una vita normale, con lavori e con paghe decenti, e soprattutto con imprenditori umani. Non credo sia giusto fare una battaglia contro il reddito di cittadinanza. Noi eravamo una famiglia normalissima prima della caduta nel baratro della disoccupazione, ma purtroppo non si può mai sapere cosa riserva il futuro”.

Dunque, un po’ di matematica, il gioco è questo: chi prende 12.000 euro al mese più rimborso spese, così da poter arrivare anche a 20.000 euro al mese, tenta di convincere l’operaio medio, stipendiato con massimo 1200 euro, che il motivo per cui riceve il salario più basso d’Europa, oltretutto in calo rispetto agli altri paesi negli ultimi anni, sarebbe il disoccupato che percepisce 500 euro al mese per circa tre anni, come se con una cifra tanto esigua ci si possa ritenere “ricchi”.

Grafico pubblicato dall’Ocse riguardante la variazione percentuale degli stipendi tra i paesi europei dal 1990 al 2020. Fonte: Ocse.

In Italia non si lavora per vivere, ma per arrancare, così si finisce a vivere per lavorare, finché non si muore sul lavoro, si intende. Sarebbe bello vedere, al posto della solita demagogia, una politica basata meno sull’odio tossico, oltre che assistenzialismo, ma più propensa a tutelare sia il lavoratore sia chi è in cerca di lavoro, perché il problema di questo Paese non è il reddito di cittadinanza, piuttosto i salari da fame, le delocalizzazioni, una cultura basata ancora sul vecchio sistema della servitù della gleba, ma siamo nel 2022.

Sia chiaro, “i furbetti” ci sono, però per fortuna da quest’anno l’Inps, assieme al Ministero della Giustizia, ha avviato controlli incrociati affinché il sussidio vada a chi ne ha veramente bisogno, dopotutto è compito proprio di chi elargisce soldi controllare a chi vanno quest’ultimi. Ancora, il 9 novembre 2021 sono stati pubblicati i risultati dell’indagine svolta dal Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza voluto dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Ebbene, il Comitato ha giudicato il sussidio uno strumento efficace nel suo complesso, a “patto però di apportare alcune correzioni”.

Nell’articolo intitolato “I disoccupati non vogliono lavorare”, scrivevo: <<se i beneficiari del reddito di cittadinanza fossero contattati attraverso gli appositi centri per l‘impiego, anziché col “passaparola”, potrebbero rifiutare massimo tre proposte prima di perdere il sussidio. Ma se così fosse il datore di lavoro sarebbe costretto ad assumere il dipendente regolarmente, con un salario conforme agli accordi sindacali. Per esempio: un cameriere percepisce mediamente ottocento euro al mese, però dovrebbe essere retribuito con 1.450 euro netti, per 40 ore settimanali. Al contrario, invece, nella vita reale si lavora dalle 12 alle 13 ore al giorno, senza festività né riposo, per 3, 4, 5 euro l’ora. A queste “norme”, dovrebbero poi aggiungersi le eventuali tredicesime, quattordicesime, liquidazioni. In pratica: il reddito di cittadinanza serve sia a sostenere chi non trova lavoro, sia ad evitare l’accettazione di condizioni economicamente umilianti>>. Perché “lavoro” non significa “schiavitù”.

Chi descrive il reddito di cittadinanza come “un incentivo a non lavorare”, probabilmente ritiene legittimo pagare stipendi attorno a quelle cifre, magari per orari di lavoro lunghissimi. La guerra al sussidio infatti non è rivolta alla disoccupazione, bensì ai salari, così come ai diritti sul posto di lavoro. Pertanto, per sottrarre i cittadini dal ricatto, dall’umiliazione, dallo stato di servitù, sarebbe necessario approvare quelle riforme, già attuate in Europa, chieste a gran voce dal Paese, affinché un lavoratore possa vivere una vita dignitosa. Mi sono imbattuto nella testimonianza di “A.B.” lo scorso 2 giugno, “festa della Repubblica”. Non credo sia un caso. Ripetiamo allora gli articoli fondamentali della Costituzione.

Articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, non sulla schiavitù. “La sovranità appartiene al popolo”, non ai padroni, “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, dunque dovrebbe garantire il lavoro, “e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, ovvero anche il lavoro degnamente retribuito, oltre che in sicurezza.

Articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Insomma, quattro articoli ancora da attuare.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).