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Politica

Quale unità? Quale pace?

Bari, venerdì 4 novembre. Alle 11 il Presidente della Repubblica depone una corona d’alloro al Sacrario Militare dei Caduti d’Oltremare. Un minuto di silenzio, poi la preghiera per commemorare, giustamente, chi ha dato la vita per la nostra Nazione. In seguito, la cerimonia si sposta sul Lungomare Nazario Sauro, con la sfilata dei reparti delle Forze Armate, il doppio passaggio delle frecce tricolori, i colpi di cannone a salve delle navi della marina militare. Ma nell’Italia del 2022, ovvero in un Paese profondamente diviso, lacerato da continui contrasti tra fazioni, in cui non riusciamo ad accordarci nemmeno su una partita di calcio, o sull’articolo determinativo da attribuire al Presidente del Consiglio, qual è oggi il significato della festa dell’Unità?

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In copertina, le frecce tricolore al secondo giro. Immagine di repertorio, riproduzione riservata.

di Alessandro Andrea Argeri

Quest’anno la festa dell’Unità si è svolta a Bari. C’era il Presidente Mattarella, il ministro della Difesa Crosetto, le navi da guerra, gli aerei dell’aeronautica, gli stand dei carabinieri, i vigili urbani, insomma un’evento importante, uno di quelli a cui assistere, con tanto di sfilata dei reparti di Esercito italiano, Marina militare, Aeronautica militare, Arma dei Carabinieri e Guardia di finanza. Sarebbe stato un bell’evento per i cittadini baresi, se solo si fosse visto.

Sul lungomare di Bari si è potuto invece osservare il ritratto della situazione politica attuale: le istituzioni su un palco lontanissimo, davanti al quale i militari sfilano in marcetta. Distanti un paio di isolati, bloccati dalle transenne, i cittadini, troppo lontani per vedere il capo dello Stato, impegnati a litigare per chi dovesse vedere meno. Situazione ironica, in un certo senso. Ricordavo diverso il “distanziamento sociale”. Per fortuna c’erano i maxischermi. Essere lì era come essere davanti al televisore, sinonimo di come forse anche la nostra vita pubblica si sia ormai ridotta a una serie di immagini riflesse da un vetro. Ad ogni modo, era una giornata dedicata all’unità nazionale, ma quale?

Nella foto, le navi della Marina militare allineate davanti al lungomare di Bari per il saluto coi cannoni al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il presidente Mattarella, da vero garante delle istituzioni, ha pronunciato un discorso di estrema attualità incentrato sull’unità dell’Europa, sulla necessità di una pace in Ucraina, sulle nuove sfide da affrontare sul terreno sia civile sia militare. Un discorso bellissimo, peccato solo l’unità non ci fosse tra gli spettatori. Sebbene si camminasse liberamente, perché in verità non c’era una folla festante come ci si aspetterebbe, non mancavano spintoni, offese, dichiarazioni di puro amore per la divisa ribattute da “complimenti” vagamente vicini al vilipendio, giusto un pochino. Ovviamente non è mancato l’evergreen “lei non sa chi sono io” perché “io dovrei stare avanti”, ripetuto da molteplici ignoti bisognosi di figurare in prima fila. Tuttavia anche paralleli alla transenna al massimo si riuscivano a vedere solo sagome, dunque a giovarne sono stati gli “ultimi” col grande schermo davanti.

Bari, lungomare Nazario Sauro. Immagine di repertorio, riproduzione riservata.

È proprio vero: un italiano può avere come nemico solo un altro italiano. Questa festa dell’Unità si è svolta in un momento particolare per la nostra società. Al di là dei mali costanti quali l’economia, il pil in calo, l’inflazione, la recessione, i russi, i vari “whatever it takes, whenever we want”, i soliti problemi insomma, abbiamo passato gli ultimi due anni a litigare sui vaccini durante una pandemia, quando un virus mortale mieteva vittime ogni giorno, mentre negli attimi di pausa la colpa della crisi ricadeva tutta sui percettori del reddito di cittadinanza, perché chi guadagna quindicimila euro con tanto di rimborso spese, fino a un massimo di ventimila euro, è riuscito nella strabiliante impresa di convincere l’operaio medio di come il motivo per cui percepisce il salario più basso d’Europa sia il povero con il sussidio di appena cinquecento euro, ottocento se vive nella totale indigenza.

Inoltre, affinché non manchi nulla, all’elenco bisogna aggiungere una guerra, di cui ormai si sono accorti tutti. Una parte della popolazione vuole la pace, un’altra non intende smettere di combattere. La prima fazione sarebbe composta dai “putiniani”, fra i quali figurerebbe anche il Papa, mentre la seconda dagli “americani”, rappresentati alla stregua di malefici mitomani con manie di protagonismo. Parallelamente, sul “fronte interno”, per continuare con un linguaggio a tema, c’è una “guerra latente”, quella dei morti sul lavoro, i cui numeri sono spaventosi: quasi tre al giorno. Ma di questo a nessuno importa, “i problemi sono altri”, bisogna parlare dei diritti civili, di Orban, di quanto siano cattivi quelli dell’altro partito. Per riassumere: se segui il Papa sei un bigotto, gli scienziati veri seguono l'”influencer” delle proteste monetizzabili.

In tutto questo, persino in una normale conversazione si può essere definiti “comunisti”, “fascisti”, o per qualcuno anche entrambi gli orientamenti. Dipende a seconda di quanto siano confuse le idee dell’interlocutore con cui ci si trova a parlare in quel momento. Questo a causa delle ripetute crisi, le quali hanno portato inevitabilmente a un’estremizzazione sia delle correnti politiche sia del linguaggio, non solo politico ma soprattutto quotidiano. Negli ultimi giorni poi abbiamo deciso di passare il tempo a litigare su un argomento di vitale importanza, dal quale dipendono le sorti della nostra libertà d’espressione, anzi, di quelle di tutta l’umanità: i rave party. Grande tema! Resta solo da capire con qual metamorfosi un ritrovo di tossici si sia trasformato in un simbolo della democrazia. “Grande Giove”!

Nel mentre le nuove generazioni, quell’indefinita categoria chiamata “giovani” alla quale anch’io appartengo, si lasciano strumentalizzare dai fanatismi politici. Ecco come universitari diventano soldatini pronti a prendere manganellate per battaglie inesistenti, inconsapevoli di combattere una guerra voluta da qualcun altro, di certo non “per il bene della comunità”. La cultura viene meno nel suo ruolo di collante sociale, le tensioni provocano divisioni tra i cittadini, il lavoratore sembra sulla via per tornare ad essere quel servo della gleba tanto caro ai padroni. Però non dobbiamo preoccuparci, assolutamente! Abbiamo gli asterischi, lo shuwa, la cancel culture, i diritti civili (quali?), il diritto inalienabile a pubblicare post sui social con cui lamentarci. Dai, su, va tutto bene… Una meraviglia! Basta solo tenere gli occhi chiusi!

Questa la nostra unità. Ecco la nostra pace. Della cerimonia del 4 novembre, lo spettacolo più bello si è avuto in occasione delle frecce tricolore. L’unico momento in cui anche i più “estroversi” hanno smesso di litigare per il posto, catturati dalla necessità di guardare in alto. Eppure, non sarebbe stato per nulla scontato sentire qualcuno dire: “Ehi, tu, come ti permetti? Sai chi sono io? Non azzardarti a guardare più in alto di me!”.

Le frecce tricolore. Immagine di repertorio, riproduzione riservata.

La cerimonia si è chiusa infine con l’inno di Mameli, al termine del quale il presidente della Repubblica, accompagnato dal ministro della Difesa Guido Crosetto, entra in macchina per lasciare piazza Venezia.

Passaggio delle frecce tricolore

Qui di seguito, il discorso integrale pronunciato dal presidente Sergio Mattarella.

La ricorrenza del 4 novembre che oggi celebriamo scandisce un momento importante e imprescindibile della nostra storia. La vittoria insieme agli Alleati contro gli Imperi Centrali, che poneva fine alla tragedia della Grande Guerra segnava anche l’approdo della nostra lotta risorgimentale iniziata decenni prima. Un percorso lungo, sofferto, costato sacrifici, dolore, lutti. Costellato di eroismo, di speranze, di impegno per la libertà, di amore per la nostra Patria. È con questo spirito e con questa consapevolezza che oggi celebriamo la giornata dedicata all’Unità nazionale e alle nostre Forze Armate.

Ogni nome di soldato caduto che leggiamo nelle lapidi dei nostri sacrari, accanto alle migliaia di sconosciuti, racconta un frammento della nostra storia collettiva. Vite spezzate, sacrificate. Giovani che non hanno avuto il dono di vivere il futuro che avevano sognato, genitori che li hanno pianti, mogli e figli che hanno atteso invano sposi e padri, che non sarebbero mai tornati alle loro case.

La nostra storia, anche quella di oggi, è frutto di quel dolore, e ha valore proprio perché ne ha saputo far memoria. Quei sacrifici non sono stati vani, perché nella consapevolezza di quanto sia terribile la guerra, si è radicato nel cuore della nostra Europa il dovere ineludibile della pace. Non è un caso che a costruire l’unità europea sia stata quella generazione che avvertiva le cicatrici dei due confini mondiali, per garantire pace, sicurezza, prosperità, sviluppo del nostro continente. L’Italia ha fornito uno straordinario contributo affinché ciò fosse possibile. Ci siamo abituati alla pace.

L’Europa l’unita stata per settant’anni l’antidoto più forte a egoismi e nazionalismi. Diverse generazioni sono nate e cresciute in un continente che sembrava aver cancellato non soltanto la parola guerra ma anche persino la sua memoria. Poi improvvisamente la guerra, la tragedia della guerra, è riapparsa nel nostro continente ed è accaduto a causa della sciagurata e inaccettabile aggressione che la Federazione russa ha portato contro l’Ucraina e il suo popolo.

Dalla fine di Febbraio si combatte, si muore nel cuore d’Europa. I media di tutto il mondo rilanciano le immagini terribili di un conflitto che non risparmia le popolazioni civili, anziani, bambini in fuga dalle bombe, l’incubo di scenari ulteriori che sembravano inimmaginabili fino a poche settimane fa. Sono passati molti mesi senza che si intravedono spiragli, eppure la pace continua a gridare la sua urgenza. Una pace giusta fondata sul rispetto del diritto internazionale e la libera determinazione del popolo ucraino, perché non vogliamo e non possiamo abituarci alla guerra.

Assume allora un significato speciale questa celebrazione del 4 novembre, giornata nella quale l’Italia si stringe con riconoscenza attorno alle sue forze armate perché nessuno più degli uomini e delle donne in divisa conosce il valore della pace è sa cosa significhi metterla a rischio. I nostri militari sono impegnati per garantire pace e sicurezza in tante aree del mondo e l’hanno fanno con straordinaria professionalità e competenza, con uno spirito di umanità che li fa apprezzare come un vero e proprio modello. Voglio ricordare tanti quanti in questi anni hanno sacrificato la vita o sono rimasti feriti compiendo il loro dovere in missione. A loro la Repubblica è grata, ai loro cari il pensiero e l’abbraccio di tutti gli italiani.

Le famiglie dei nostri militari rappresentano forte sostegno di chi sceglie di servire il paese indossando la divisa. Anche a loro va oggi la nostra riconoscenza. Desidero esprimere vicinanza e apprezzamento ai nostri militari che sono lontani da casa impegnati nel quadro delle missioni internazionali. L’Italia è attore di primo piano presente tutti i principali contesti multilaterali. Nazioni Unite, Unione Europea, Alleanza Atlantica, coalizione internazionale, i punti fermi della nostra bussola. Restano la vocazione europeista e il solido legame transatlantico.

Quanto sta accadendo nella nostra Europa parla alla responsabilità degli uomini e delle istituzioni. Ci dice che la pace si costruisce ogni giorno prima di tutto dalla coscienza delle nuove generazioni, nel cuore di quel popolo che si sente europeo, accomunato dalla medesima concezione di libertà, di diritti, di fraternità, che ripudia l’idea stessa di guerra, ripudia la guerra come dice la nostra Costituzione che indica anche la via e gli strumenti che rendono concretamente possibile questa scelta. Adesione alle sedi multilaterali, impegno ad assicurare pace e giustizia fra le nazioni e ci dice anche che la sicurezza e la pace sono beni comuni che vanno difesi anche quando può apparire impegnativo e difficile.

Non è un caso se tre primi obiettivi questi cosi dedicarono i padri fondatori dell’Europa ci fosse la difesa comune. Alcuni passi sono stati compiuti ma troppo poco e troppo lentamente. Questo resta un grande obiettivo per il quale l’Italia può dare un’importante contributo sia in sede politica sia attraverso il patrimonio tecnologico industriale di cui dispone, nella convinzione che investire nella difesa europea significa anche rafforzare l’alleanza atlantica nel suo pilastro continentale, reggere le crisi con prontezza e flessibilità.

Significa anche, sul piano interno, adeguare il nostro strumento militare per conseguire e consolidare le capacità necessarie ad affrontare i nuovi scenari scenari e terreni di impegno nei quali spesso è difficile operare una distinzione o una separazione netta tra ciò che è militare e ciò che è civile. Penso allo spazio, alla dimensione cybernetica e anche allo spazio subacqueo. Su queste frontiere, alcune delle quali ancora poco esplorate, si sta giocando una competizione internazionale che è molto serrata, la cui posta in gioco ha molto a che fare con la nostra sicurezza.

I nostri militari e il mondo della difesa hanno competenze e professionalità per svolgere un ruolo primario in questa sfida così come un uomo di grande portata, di valore, i nostri militari hanno avuto e hanno nel contribuire alla sicurezza dell’ordinato svolgersi della vita della nostra società. Penso al prezioso contributo dato alla comunità nazionale in occasione delle emergenze che abbiamo dovuto attraversare dalla pandemia, alle conseguenze delle calamità naturali che hanno colpito il nostro paese, anche per questo oggi la Repubblica vi dice grazie.

Altruismo, coraggio, pietà del sacrificio, amore per la nostra patria, per la nostra gente, questi valori sono quelli che caratterizzano le nostre donne e i nostri uomini che indossano la divisa e che con del loro impegno e con loro storie hanno contribuito alla costruzione della nostra unità, a quella che oggi è la Repubblica. I ragazzi nelle trincee della grande guerra e poi le pagine drammatiche del secondo conflitto, la resistenza dei militari che dissero no al nazifascismo, i martiri di Cefalonia, l’esempio di un ragazzo buono e generoso che divenne eroe per salvare la vita di altri italiani, Salvo D’acquisto, medaglia d’oro valor militare di cui l’hanno venturo ricorderemo gli ottant’anni dal sacrificio. Sono soltanto alcune tessere del mosaico che in questa giornata vogliamo ricordare.

Vorrei infine formulare un auspicio. Come è noto il 4 novembre è definito con la legge 860 del 1949 come giorno della unità nazionale. Il fatto di ricomprendere in questa giornata la festa delle forze armate appartiene alla tradizione e a quel sentimento di omaggio alla memoria che trova grande riscontro nella coscienza delle nostre comunità. Credo che sia necessario, come ho ricordato alcuni mesi addietro al governo, di assumere a legge la definizione completa ufficiale del 4 novembre come giornata dell’unità nazionale e delle forze armate. Lo dobbiamo alla nostra storia, lo dobbiamo a un patrimonio prezioso fatto di donne e di uomini del nostro paese, lo dobbiamo a noi stessi. Viva le forze armate viva l’Italia”.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).