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Cultura

Quella mattina, a Boves

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di AMALIA MARINO in GIANFRATE*

Il giorno in cui diedero alle fiamme Boves ero di staffetta.


Ero arrivata da appena dieci minuti per avvisare i partigiani ed i pochi giorni rimasti in paese di scappare perché si stava preparando un rastrellamento a tappeto. La notizia ci era pervenuta da un’altra staffetta, giunta da Torino. Ma i tedeschi ed i fascisti avevano già radunato la gente di Boves nella piccola piazza. Sparsero dappertutto benzina e nafta e diedero fuoco alle cascine ed alle stalle nelle quali erano rinchiusi gli animali. Poi iniziarono ad interrogare la gente perché dicessero dove si nascondessero i partigiani ma nessuno, malgrado le minacce, gli schiaffi ed i calci, rispose alle loro domande. Fu allora che i tedeschi, ma soprattutto i repubblichini di Salò che portavano impresso il teschio sui loro fez, sfogarono la propria rabbia sparando e uccidendo gente inerme.

Quando, soddisfatti, andarono via, lo spettacolo che si presentava ai nostri occhi era terrificante: i corpi senza vita erano sparsi per terra, la maggior parte delle persone senza casa, senza pane. Rientrai a Bagnolo Piemonte con la mia bicicletta, piangendo per le terribili scene alle quali, dal mio nascondiglio, avevo assistito, non sapendo ancora quello che era successo nel mio paese: ventuno morti, due alberghi bruciati ed alcuni giovani portati a Torino, a Casa Balilla, dove, dopo atroci torture – tiravano via le unghie – li fucilarono.

Dopo tre giorni da quell ’infamante giornata, ci siamo svegliati con le mitragliatrici puntate verso tutti gli angoli della strada. Capimmo subito che sarebbe stata un’altra giornata di fuoco; fascisti della “Ettore Muti” da ogni parte e ragazzi di sedici, diciassette anni che cadevano nelle loro mani. Vennero messi uno a fianco dell’altro e, mentre il plotone di esecuzione si preparava, si udì un grido angosciato: era la mamma dei due fratelli che chiedeva di essere ammazzata al posto dei due figli. Le si avvicinò il comandante del plotone e, beffardamente, le chiese chi dei due volesse che fucilassero per primo. La donna svenne, Morì due, tre mesi dopo nel manicomio dove era stata ricoverata.

Non era che l’inizio dell’occupazione che si sarebbe protratta per ventiquattro lunghi mesi; mesi di terrore e di atrocità come il giovedì del Corpus Domini del ’44. Quel giorno a Bagnolo tutte le Chiese erano chiuse. Presero quattro giovani di nemmeno vent’anni e li impiccarono ai balconi, mani e piedi legati, ma anziché usare la corda li appesero con quei grossi ganci che usano i macellai per appendere la carne, conficcati nel collo. Dopo parecchie ore, quando i fascisti andarono via e ci potemmo avvicinare, uno dei quattro giovani, “Genova” il suo nome di battaglia, ebbe ancora la forza di invocare ”mamma”.

Ora ci si chiede di dimenticare. Come si potrebbe farlo, quando la sera, prima di andare a letto, ci salutavamo perché non eravamo certi l’indomani di rivederci?


*Staffetta Partigiana 105 Divisione Garibaldi

(1919- 1996)

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo