Società
Uomini e topi, così vicini, così lontani
Riusciamo ad esistere solo privando gli altri di ciò a cui hanno diritto esattamente come noi, ma non sempre lo sanno.

di Rosamaria Fumarola
Molte cose non presentano più alcun elemento di sorpresa nel nostro paese.
Un tempo ad esempio si attendeva un particolare giorno della settimana per scoprire chi fosse l’ospite intervistato da Enzo Biagi nella sua trasmissione e si aspettava quel momento certi che dopo, taluni aspetti della realtà ci sarebbero sembrati più comprensibili. I dibattiti televisivi erano autentici, al punto tale che non di rado interveniva il politico di turno con provvedimenti censori nei confronti di una certa trasmissione e questo ci garantiva che ciò a cui stavamo assistendo era in qualche modo vero. L’evoluzione che i programmi di approfondimento giornalistico hanno avuto, pur sviluppandosi sulle esperienze a cui ho fatto riferimento, non sempre sono però stati all’altezza di chi li ha preceduti, anzi talvolta sono diventati la replica senz’anima di quel copione, per cui si assiste ogni settimana alla medesima pièce, agli stessi scontri tra i rappresentanti delle diverse forze politiche.
Quest’attenzione a quanto avviene tra i rappresentanti della cosa pubblica può peraltro svolgere un ruolo importante, a patto che non si perda di vista il legame col reale. In caso contrario rischia di diventare un prodotto utile alla propaganda politica più che all’interesse dei cittadini. Non pretendo certo una programmazione che tenga conto della mia idea di televisione, ma credo di non affermare il falso sottolineando come a parte virtuose eccezioni, nei palinsesti televisivi delle principali reti nazionali, manchi quasi completamente la sensibilità verso le vicende umane che sono il tessuto principale della realtà che si pretende di raccontare.
Così accade che durante uno di questi programmi al giornalista di turno capiti di imbattersi nel racconto raccapricciante delle condizioni di vita in cui un uomo ed una donna sono costretti a vivere in una delle nostre città e che quell’ inviato non dedichi alla narrazione che un attimo del servizio, evidentemente preso da altre priorità, dall’obbligo appunto di seguire un copione.
È quanto è accaduto non più di un mese fa su una delle nostre reti televisive, durante un programma nato con la “divisa” che il conduttore tiene sempre a mostrare, soverchiando ogni misura e finendo con indisporre anche chi di una certa fazione politica sia a sua volta sostenitore. Durante uno dei tanti servizi dedicati (e giustamente) alle periferie abbandonate o al Covid 19, si è manifestata in tutta la sua evidenza il fenomeno al quale sopra facevo cenno e cioè lo scollamento tra il racconto giornalistico e le condizioni di vita in cui parte del paese è condannato a r- esistere.
Eppure i luoghi in cui il racconto era ambientato, una baraccopoli foggiana che aveva tutte le sembianze di un campo profughi, avrebbe consentito a chiunque di stigmatizzare talune problematiche, ma l’obiettivo in questo caso era l’esperienza della pandemia in un luogo degradato.
L’inviato non è stato però fortunato, perché dopo un paio di domande rivolte a qualche abitante del posto che si trovava a passargli di fianco, ha deciso di entrare in una baracca che gli si parava dinanzi, all’interno della quale una signora dall’età apparente di settant’anni, con disarmante e rassegnata pacatezza ha deciso di parlargli della propria quotidianità. Era di tutta evidenza che la donna non vivesse nell’agio ben prima che proferisse parola: la casa era circondata da rifiuti e macerie di ogni tipo che non necessitavano chiarimenti circa la loro incompatibilità con una esistenza appena appena decente. La signora tuttavia non si è mostrata rabbiosa col giornalista, ma gli ha parlato come se la responsabilità della sua esistenza e dunque quella che in fondo lei considerava la colpa di essa, le appartenessero completamente.
La donna aveva due grandi occhi azzurri, ancora legati con naturalezza alla vita ed i capelli chiari, raccolti.
Dice che ora vive sola anche se non molto tempo prima con lei c’era il marito. Fin qui, a parte i luoghi terribilmente degradati, nulla di particolare, ma poi la donna racconta perché suo marito non è più con lei.
Dice che quando scendeva la notte e l’uomo nel suo letto cercava di dormire, i topi lo mordevano, fino a fargli contrarre l’infezione che lo avrebbe portato poi alla morte.
Il giornalista sembrava colpito da ciò che stava ascoltando, ma questo non gli ha impedito di uscire dalla baracca alla ricerca di altre storie più vicine al tema della trasmissione: in fondo il marito della signora non si può dire fosse morto di Covid.
La signora dagli occhi azzurri ha confessato di non aver mai avuto una casa vera.
È stata vicina a suo marito per tutta la sua esistenza.
Ha accettato senza ribellarsi di vivere in un modo nel quale a portarti via possono essere i topi.
Ha creduto che non esistesse per lei e suo marito un mondo diverso, eppure era quel mondo era distante da loro solo poche centinaia di metri. La questione sta dunque tutta in quella rassegnazione, in quel pensare che esistano specie destinate al benessere ed alla felicità e specie destinate a conoscere solo gli stenti. La questione sta nella condivisione di cibo e spazi con animali non di rado più forti, perché esistono ancora condizioni nella quali in Italia bisogna difendersi non solo dagli altri esseri umani, ma abituarsi a strappare la propria vita dalla bocca delle bestie, con le quali si è costretti alla fine ad essere più simili che agli uomini.
Ci abbiamo sempre provato, ci proviamo ed ancora lo faremo: schiavi, ebrei, donne, neri, poveri ci servono perché senza non potremmo definirci umani e civili, perché riusciamo a resistere solo privando gli altri di qualcosa a cui hanno diritto esattamente come noi, anche se non sempre lo sanno.
