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Economia & lavoro

La stagione della carneficina sociale

Lo Stato ferma il lavoro, ma anche i lavoratori.

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di Alessandro Andrea Argeri.

Doveva essere l’estate della ripartenza, invece è la stagione della carneficina sociale. Termina il blocco dei licenziamenti, ma non l’emergenza pandemica, così come permane l’assistenzialismo malato. Il Governo guidato da “San Mario Draghi” doveva creare lavoro, ma per ora è aumentato il numero di disoccupati. L’individuo non può lavorare, realizzarsi, autodeterminarsi, nell’unico Paese al mondo in cui lo Stato incentiva la disoccupazione.

Approvato dal Governo Conte bis, il blocco dei licenziamenti è stato un provvedimento temporaneo, legittimato da un punto di vista amministrativo poiché necessario a salvaguardare i posti lavoro durante una situazione emergenziale, con cui veniva vietato alle aziende di licenziare i lavoratori, con l’erogazione della cassa integrazione gratuita. Dal 1° luglio 2021 tuttavia, il blocco è terminato per tutte le imprese, ad eccezione delle beneficianti di ammortizzatori sociali, ovvero il settore commerciale, per il quale è prevista scadenza verso la fine di ottobre dello stesso anno.

Nonostante il ritorno alla crescita dell’economia italiana, le stime contano almeno un milione di posti di lavoro persi, a fronte dei già nove milioni di contratti cessati nel 2020, più quelli a cui non è stata rinnovata la scadenza naturale, ovvero i part time e i determinati: giovani, donne, stagionali, coloro i quali hanno pagato il prezzo più alto.

A nulla sono valse le proteste dei sindacati, ferocemente contrari al licenziamento più per motivi ideologici quanto per una reale problematica in sé, poiché l’eventuale disoccupato avrebbe comunque diritto a due anni di indennità accompagnatoria per cercare lavoro (NASPI), del valore quasi uguale alla somma erogata dalla cassa Covid. Tuttavia il problema è un altro: per fermare una logica di assistenzialismo malato, il Governo ha ceduto alle pressioni degli industriali, oltre che dell’opposizione contraddittoria della destra italiana.

Dall’inizio della pandemia abbiamo assistito infatti ai lamenti non solo dell’imprenditoria, per la mancanza di lavoratori da sfruttare a causa del reddito di Cittadinanza, ma anche del mondo dell’industria, quasi smaniosa di licenziare. A prima vista questo sembrerebbe un atteggiamento contradditorio di due distinte classi economiche italiane: l’una vuole assumere, l’altra intende licenziare. In realtà è ovviamente l’ennesimo tentativo capitalista di massimizzare i profitti in ottica delle riaperture.

I settori in fase di ripartenza infatti possono licenziare, così da produrre di più ma con meno manodopera, composta principalmente da precari sottopagati, o lavoratori a tempo determinato, ovvero chi non può pretendere diritti in termini di tempi, carichi di lavoro, decisioni, stipendi. Proprio per risparmiare sui quest’ultimi la spada di Damocle ricade allora sui lavoratori a tempo indeterminato. In pratica la logica è sempre la stessa: eliminare i contratti “troppo vantaggiosi”, così da abbassare i salari per aumentare i profitti. Si punta allora sul precariato, diffuso principalmente fra le donne lavoratrici, aumentato del 50% negli ultimi cinque anni.

Alla scadenza del blocco dei licenziamenti si aggiunge inoltre il termine del blocco degli sfratti, passato un po’ più in sordina, ma dagli effetti ugualmente catastrofici. Circa settantamila famiglie perderanno le proprie abitazioni entro il primo gennaio 2022, anche in questo caso principalmente le fasce della popolazione più debole, ovvero i lavoratori precari, giovani, donne.

Attualmente, secondo un’indagine rilasciata dal Wall Street Journal, il 60% degli italiani è a carico della collettività, cioè non paga le tasse, né lavora. In pratica sono solo quattro cittadini su dieci a “mandare avanti la baracca”, ma forse la percentuale è destinata a diminuire. Nel mentre però, restiamo focalizzati sul green pass: la nuova arma di distrazione di massa

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).