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La pornografia del dolore non passa di moda

La notizia di cronaca che racconta della morte di una bimba per mano della madre non è la rappresentazione teatrale della tragedia greca “Medea” che aveva fini diversissimi da quelli che portano giornalisti senza scrupoli alla pornografia del dolore altrui.

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Il numero di tragedie umane che ogni giorno possono verificarsi in un dato territorio è potenzialmente infinito ed ognuna di esse, se portata a conoscenza dell’opinione pubblica susciterebbe un interesse ai limiti del morboso che da secoli è oggetto di studio. Della funzione catartica che la rappresentazione di un dramma teatrale ha sullo spettatore, scriveva già Aristotele ed in tempi meno lontani il poeta francese Charles Baudelaire che, in un pensiero custodito ne “Il mio cuore messo a nudo” sottolineava che coloro che vengono a farti visita in un momento difficile, tragico appunto della tua vita, lo fanno perché segretamente amano assistere ad un dramma che il caso ha voluto colpisse altri. In sostanza costoro si rallegrano intimamente del dolore che non li vede coinvolti in prima persona. Se questa considerazione ci fa inorridire e tendiamo a respingerla per evitare di giudicare noi stessi come esseri moralmente abietti, il pensiero che il “mors tua vita mea” risponda ad un ordine naturale di conservazione della specie, che non dipende dalla nostra volontà e trova la sua ratio in disegni ben più complessi di quelli che da esseri umani possiamo figurarci, dovrebbe sollevarci ed in qualche misura scagionarci. Devo confessare che sulla funzione catartica della rappresentazione del dolore nutro qualche perplessità. Con ciò non intendo mettere in dubbio il genio senza tempo di un maestro della civiltà occidentale come Aristotele, ma solo che forse la diversità dei tempi rende differente il concetto di tragedia. Sono persuasa che il filosofo individuasse nella funzione catartica della tragedia un elemento autentico del genere teatrale, ma di quello in particolare, che non è paragonabile alla reazione che come spettatori abbiamo di fronte all’uccisione di una madre della propria figlia. Cosa pensassero i greci o i romani che assistevano alla messa in scena di “Medea” credo sia solo lontanamente immaginabile per noi a distanza di così tanto tempo, sebbene senz’altro vi siano studiosi in grado di formulare a questo proposito ipotesi verosimili. Su una cosa al 

contrario non ho dubbio alcuno e cioè che la notizia di cronaca che racconta della morte di una bimba per mano della madre non sia la rappresentazione teatrale della tragedia “Medea” che aveva fini diversissimi da quelli che portano giornalisti senza scrupoli alla pornografia del dolore altrui. In quest’ultimo caso ci si può spingere ad interpretare il voyeurismo degli spettatori nel quadro della cinica lettura del dramma altrui che ci ha lasciato Baudelaire: non c’è catarsi né un intento pedagogico, ma puro e compiaciuto voyeurismo di chi non trova né dentro né fuori di sé motivi validi per astenersi da questa pratica. E così, le ragioni (insondabili) di una tragedia umana, diventano l’interesse prediletto di schiere di spettatori che bruciano il proprio tempo senza esercitare un briciolo di senso critico. Ad esempio, anche i meno intellettualmente dotati concorderebbero nel ritenere che per nessuna ragione al mondo vorrebbero che le loro vicende private fossero oggetto delle illazioni gratuite dei cittadini di un intero paese. Non si comprende dunque perché questo non debba valere per coloro delle cui tragedie ci interessiamo morbosamente. Non è il dramma in sé già fonte di sofferenza? Perché imporre il diritto alla sua rappresentazione, come se si trattasse di uno spettacolo per assistere al quale abbiamo pagato il biglietto? Tra le varie e sfuggenti (perché profonde) interpretazioni di tale illegittima intromissione, non è fuori luogo quella che spiega il fenomeno usando il termine pornografia, sebbene gli attori dei film porno rappresentino, mettano in scena il sesso e non lo vivano davvero. 

Se però è controverso ciò che ci muove con morboso interesse verso le altrui disgrazie, certo ed indiscutibile è il diritto di ciascuno al rispetto della propria privacy, a maggior ragione se funestata da una tragedia e questo riguarda tanto le vittime quanto i presunti carnefici. Il dolore, qualunque dolore, inflitto o subito, porta con sé un carico di ragioni che in parte (quello della consapevolezza di chi agisce) formano giustamente oggetto della valutazione di un giudice ed in parte restano insondabili spesso proprio agli stessi attori. L’insieme di questi aspetti, non giudicabili ma esistenti, devono essere oggetto invece del rispetto della società, che deve fare un passo indietro ed ammettere di sapere ben poco perfino di sé. In caso contrario, la speculazione inutile, fatta con vocazione hobbystica solo come passatempo realizza una sperequazione che non può trovare giustificazione in un malinteso diritto di cronaca, che approfitta della momentanea vulnerabilità di alcuni cittadini per ledere i loro fondamentali diritti, ampiamente garantiti sulla carta peraltro dall’ ordinamento. Ecco dunque che il nostro voyeurismo trova storicamente il suo corrispettivo non tanto nelle rappresentazioni teatrali delle tragedie, quanto in quelle dei “giochi” che si tenevano nel Colosseo o nelle esecuzioni pubbliche di condannati che infondo fino a non molto tempo fa potevano aver luogo nelle piazze. In questi casi il potere aveva un intento preciso ed evidente nel rendere pubblica la violenza di stato. Anche oggi, un diritto di cronaca interessato a rendere noti particolari cruenti ed orrorifici ha le sue motivazioni ed anche questo ha in qualche modo a che fare con un potere, al quale dovremmo imparare a guardare con occhio ben più critico di quanto non facciamo.

Rosamaria Fumarola 

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano