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Fausto Coppi, quel tragico eroe di una tragedia collettiva

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di MARIO GIANFRATE

IL “CAMPIONISSIMO” SI SPEGNEVA LA MATTINA DEL 2 GENNAIO 1960




Quel due gennaio del lontano 1960, i tappi di bottiglie di birra, o di vino, o di aranciata Salviola, sapientemente svuotati del loro sughero, riempiti con il “litratto” – la figurina – del ciclista del cuore ritagliata in tondo e poi ricoperta da una pellicola trasparente, affilati sull’asfalto perché scivolassero via più veloci, quel due gennaio rimasero inutili in una tasca quasi sempre bucata.

Non si udirono, in quel pomeriggio livido di tramontana, i soliti schiamazzi di una ridda imprecisata di ragazzini dai calzoni corti intenti a contendersi la tappa del giorno, e i gradini dell’Addolorata e le scalinate della Chiesa Madre rimasero tristemente silenziose.

Ci ritrovammo, increduli, sulla piazzetta del Municipio come se ci fossimo dati un implicito appuntamento per testimoniare, con la nostra presenza, una solidarietà, una fede: Fausto Coppi era morto da poche ore per l’imperizia di illustri luminari della medicina, e già la sua leggenda riviveva nelle piazze, lungo le strade, nei cuori della gente privata tragicamente, in modo assurdo direbbe Pavese, del suo eroe che sopravviveva in maniera straordinaria, magica, alla stessa sua morte.

Una morte improvvisa, inaspettata e, per questo, che sconvolge e coinvolge, che coglie di sorpresa, che induce a riflettere. Sul senso della vita e sul senso della morte.

E’ di fronte alla morte, quando tutto finisce, che si acquista piena coscienza della precarietà dell’esistenza, della sterilità del superfluo, della vacuità dei contrasti, della stupidità dell’orgoglio nel quale, spesso, annegano affetti e amicizie consolidate.

Anche su quel traguardo, sul traguardo della morte, la ruota di Coppi aveva superato la linea battendo, ancora una volta, il suo rivale di sempre Bartali.

Le sue imprese, di gloria e di trionfi, al Tour o sul Sestriere, tra le cime impervie dell’Izoard o per le ripide del Monginevro, riapparivano nelle nostre tappe, ovunque ci fosse un rettilineo da adattare. Le sue fughe divenivano le nostre fughe; le sue vittorie, le nostre vittorie.

L’Italia umiliata, l’Italia delle città distrutte da una guerra insana, l’Italia dall’identità da ricostruire, riscattava col gesto sportivo di Coppi anni e anni di povertà, di sofferenze, di tribolazioni. Ritornava a guardare il mondo non con gli occhi dei vinti, ma con lo sguardo della dignità.

Al comando della corsa un uomo, un uomo solo… La sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”. Così Mario Ferretti, un radiocronista dell’epoca, annunciava le strepitose vittorie di un uomo solo anche tra la folla, che volava simile a un dio, verso il traguardo. Della tappa e della vita.

Forse per questo amore quasi morboso per il “Campionissimo”, per “L’Airone che ha chiuso le ali” di Orio Vergani, per “l’Eroe greco” di Gianni Brera – tragico eroe di una tragedia collettiva – , quando nelle prime edizioni ciclistiche della “Coppa San Rocco” che si svolgeva sul circuito di Locorotondo, un corridore guidava la fuga, ragazzi di poche pretese cresciuti tra la polvere delle strade ancora dissestate e il caldo sole mediterraneo, gridavamo con tutto il fiato che avevamo in corpo: “Forza Coppi!”.