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L’arcobaleno di Pechino 2022

A Pechino, sono 7 le stelle lgbt pronte a brillare tra neve e ghiaccio. Siamo pronti alla volta oppure non ancora?

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DI FABRIZIO RESTA

Credit foto: Amanclos license CC BY 2.0

Di fronte all’avversario siamo tutti uguali, senza distinzioni di colore della pelle, di religione, di nazionalità. Questo però, fino a poco tempo fa, non valeva per gli omosessuali. Piano piano sta progredendo anche la lotta contro le discriminazioni di carattere sessuale. A Tokyo erano ben 161 gli atleti dichiarati queer, una parola usata per indicare coloro che non sono eterosessuali ma al tempo stesso non sono cisgender, ossia persone la cui identità di genere non corrisponde al genere e al sesso biologico alla nascita. Di questi, ben 50 hanno ottenuto una medaglia. Tokyo ha visto anche per la prima volta gareggiare un atleta transgender nella categoria femminile di sollevamento pesi: la neozelandese Laurel Hubbard. Thomas Bach, presidente del Comitato Olimpico Internazionale, ha creato un gruppo di lavoro per regolamentare la partecipazione degli atleti trans dopo Pechino. Lo sport è l’alternativa alla competitività del mondo si sa ed è sempre stato simbolo di unione e fratellanza tra i popoli. Lo sport è inclusione, lo sport è di tutti, perciò non ci stupiamo se certi tabù cominciano ad essere sfatati per primi nel mondo dello sport.

A Pechino il 4 febbraio cominceranno le Olimpiadi invernali, dove attualmente saranno 7 gli atleti queer. Un avvenimento importante se consideriamo quanto sia indietro proprio la Cina, in temi di riconoscimento dei diritti lgbt. Il 31 dicembre 2015, infatti, la China Television Drama Production Industry Association ha pubblicato nuove linee guida, incluso il divieto di mostrare le relazioni LGBT in TV. Per non dimenticare la scorsa estate, quando l’Università di Shanghai ha chiesto a tutti i dipartimenti di “stilare una lista” degli studenti Lgbt fornendo informazioni sul loro stato mentale.

Certo, se da una parte lo sport sembra pronto alla svolta, la nostra società forse non lo è ancora. Fare coming out non è ancora semplice per tutti. Lo ha dimostrato la lettera di un giocatore della Premier League che si dichiarava omosessuale ma che ha voluto restare anonimo perché il calcio non è ancora pronto ad accettare una cosa simile. L’orientamento sessuale, come il colore della pelle, è una delle migliaia delle caratteristiche che ci rappresentano, non “la” caratteristica. Purtroppo invece succede spesso che una persona venga giudicato per “la” caratteristica anziché il valore umano e sportivo. Per questo la lotta contro le discriminazioni ne deve fare ancora tanta di strada, almeno fino a quando ogni atleta potrà dichiararsi senza rovinare la sua carriera. In Italia non è molto differente. Guarda caso non c’è nessun calciatore che si è dichiarato omosessuale ma per comprendere meglio basterebbe ricordare le parole di Guido Barilla nel 2013 rispondendo alla domanda sul perché l’azienda non avesse ancora dato spazio agli omosessuali nei propri spot: «Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca». Tutto ciò non deve stupire nel paese dove sono state fatte scene di giubilo per l’affossamento del ddl Zan. La vera sconfitta di una società è questa. Certo, dopo una campagna di boicottaggio (e delle ingenti perdite) ora la Barilla ha voltato pagina ma resta lo spaccato di un paese che non è ancora maturo ad affrontare la questione. Tanto di cappello quindi ai campioni italiani che hanno fatto coming out come la pugilessa Irma Testa che non hanno affrontato solo gli avversari sportivi ma le polemiche e i pregiudizi di un’intera società purtroppo ancora acerba. Pare che Dio abbia nascosto i migliori gioielli ai margini della società.


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Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo