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Quello squillo che ha cambiato la vita

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di LAURA FANO

“Ehi Joey, sono Martin. Ti sto chiamando da un cellulare, un vero cellulare”.

Era il 3 aprile del 1973 quando Martin Cooper, direttore della sezione Ricerca e Sviluppo della Motorola, scese in strada a New York per testare il prototipo della sua geniale invenzione. Un momento storico, che aprì una nuova frontiera nella comunicazione a distanza.

Il primo squillo che ha segnato la rivoluzione nel mondo della comunicazione globale, e ha cambiato la vita di tutti noi era diretto, dalla strada di fronte all’Hotel Hilton di New York, a Joel Engel, capo della ricerca dell’antagonista Bell Lab. Il testimone inconsapevole della prima telefonata in assoluto da un apparecchio senza fili dovette rodersi non poco nello scoprire che il collega dell’azienda concorrente l’aveva battuto sul tempo.

Era la prima telefonata della storia “senza fili” e fu l’inizio di una rivoluzione. Prima di allora il cellulare esisteva solo nella fantascienza. Oggi non ne sapremmo più fare a meno.

L’apparecchio che aveva inventato Cooper si chiamava Dyna-Tac, un telefono certamente più ingombrante e pesante di quelli odierni, quasi un chilo e mezzo. La batteria aveva una durata di circa trenta minuti e occorrevano dieci ore per ricaricarla.

L’invenzione fu realizzata grazie a 100 milioni di dollari che la Motorola investì nell’intuizione di quel ragazzo figlio d’immigrati ucraini.


Da quel primo squillo ci vollero altri dieci anni per perfezionare il prodotto. Infatti, il DynaTac 8000x comparve nei negozi solo nel marzo del 1983, al prezzo di 4.000 dollari: il costo elevato e la scarsa maneggevolezza non scoraggiarono, però, le vendite, anzi le prenotazioni superarono abbondantemente gli esemplari in commercio. Cominciò così la rivoluzione mobile che nel decennio successivo subì una prima accelerata, con l’avvento del GSM e degli SMS. Da lì, il passaggio agli smartphone è stato veloce e l’impronta della tecnologia si è fatta sempre più strada nella nostra quotidianità.

Il cellulare, da bene per ricchi, è diventato così un indispensabile smartphone nelle tasche di tutti, dai più piccoli agli anziani.

Sono passati ben 45 anni da quella scatola che Martin Cooper teneva appoggiata all’orecchio, e quell’oggetto che nel tempo ha assunto svariate forme e dimensioni, ha trasformato radicalmente le nostre abitudini, entrando a far parte delle nostre vite in modo prepotente negli anni a cavallo fra il 1990 e il 2000.

Quello che fino agli anni ’80 era un oggetto misterioso e inarrivabile, oggi è un’estensione di noi stessi. E se alla fine degli anni ‘80 anni era l’oggetto «in» di imprenditori, attori, top manager e ricconi, oggi il progressivo calo dei prezzi ne ha fatto un prodotto di massa: dai 5 agli 90 anni ce l’hanno un po’ tutti e c’è addirittura chi ne possiede due. Ed è un concentrato di tecnologie che, nella maggior parte dei casi, neppure sappiamo di utilizzare.

Il telefono è diventato un arto, un prolungamento delle orecchie e la sua fotocamera sostituisce quasi i nostri occhi; una protesi del cervello, un surrogato della memoria. Ci svegliamo al suono del cellulare, mangiamo con il telefono sulla tavola, comunichiamo faccia a faccia da una parte all’altra del globo, puliamo i pavimenti con la testa appoggiata al telefono, mentre con un clic comandiamo l’aspirapolvere nell’altra stanza. Lo smartphone è la bussola del mondo, estensione in grado di farci trovare un taxi e l’amore, di giocare e pagare, di scattare e condividere. Le notifiche che ci appaiono sullo schermo ci ricordano che il treno o il bus che stiamo aspettando arriverà in ritardo; oppure ci segnalano le promozioni del negozio dietro casa.

Nella vita di tutti i giorni la tecnologia si è fatta spazio diventando parte della nostra routine e agevolandoci nelle più svariate mansioni, segnando una svolta tra “come si faceva prima” e “come si fa adesso”; spesso, ahimè a scapo della privacy.

Oggi un’app può aiutarti a scegliere l’albergo, l’assicurazione e il ristorante, guidandoti nella selezione. Innovativi sensori smart nei packaging degli alimenti ci segnalano lo stato di conservazione dei prodotti. Dal telefono comandiamo la lavatrice e la lavastoviglie. Con il cellulare misuriamo la pressione, la glicemia e il battito cardiaco. Per molti di noi lo smartphone è l’ultima cosa che teniamo in mano prima di andare a dormire e la prima appena alzati la mattina.

Togliete il cellulare a un cittadino moderno e andrà in crisi di astinenza.

“Il telefonino è la scatola nera delle nostre vite”, come racconta il film Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Negli archivi dei nostri cellulari c’è ormai un intero mondo non solo di foto e video, ma di relazioni, di sentimenti ed emozioni.

Gli smartphone hanno cambiato, stravolgendola, la nostra vita. Li utilizziamo nelle sedute in bagno, al cinema, per strada, a letto, quando guidiamo; e persino in chiesa non è difficile udire la suoneria dell’ultima serie tv.

Se tutto ciò ha migliorato le nostre giornate non sta a me dirlo. Di sicuro ha cambiato il nostro approccio alla quotidianità. Tutto quello che fino a qualche anno fa ci saremmo solo lontanamente immaginati di fare con un telefonino, oggi è diventato realtà, e non è finita qui.

Il cellulare ha riempito la nostra vita di comunicazioni e relazioni a volte inutili e superflue che non fanno altro che ingolfare la nostra mente che fatica a organizzare gli impegni e i rapporti. Siamo eternamente collegati a tutto. In Cina la chiamano “eroina elettronica”, è la dipendenza dal proprio cellulare, un fenomeno che colpisce miliardi di persone, in gran parte giovani. Ma c’è chi si ribella a quest’overdose globale e sperimenta una vita senza telefonino.

Dopotutto, questo compagno di vita che ci chiede di essere perennemente connessi e ci impone la reperibilità a tutti i costi fino a qualche decennio fa neppure esisteva.

La volontà di liberarsi della dipendenza equivale spesso a una sorta di misurazione della propria assuefazione, e qualche volta a una vera e propria scelta di vita. Un po’ come smettere di fumare. L’abitudine a convivere con il proprio smartphone influisce sulla gestualità e la personalità di un individuo, creando, proprio come il fumo, automatismi involontari: dal gesto reiterato teso a controllare il telefono nella tasca del cappotto, alla smania di fotografare, comunicare, e condividere nell’istantaneità.

Forse dovremmo avere il coraggio di fare un passo indietro, rallentare, fermarci se necessario per guardarsi dall’esterno, per acquisire coscienza rispetto ai confini morbidi tra utilità e assuefazione, tra piacere e ossessione.

Riprendiamoci, almeno per un fine settimana, il diritto di perderci e sbagliare strada senza il navigatore, di arrivare in ritardo senza essere inondati di notifiche o chiamate, di annoiarci alle poste o mentre aspettiamo una pizza. Ritroviamo la percezione del nostro tempo libero, e proviamo a riscoprire il piacere di una certa andatura umana che nessun robot potrà mai sostituire.

 

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo