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Il suicidio perfetto

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di LAURA FANO

La storia che sto per raccontarvi accadde a New York il 1° maggio del lontano 1947; una storia tanto triste, quanto mai attuale.


Lei si chiamava Evelyn Francis Mchale: la donna suicida più bella del mondo.

Suo padre Vincent e la sua mamma Helen erano arrivati a Washington DC dopo tanti trasferimenti di lavoro. Il matrimonio tra i coniugi non andava per niente bene, perciò in seguito divorziarono e il padre ottenne la custodia dei nove figli, tra cui Evelyn. Lasciata Washington, si trasferirono definitivamente a New York, dove la ragazza dopo la laurea decise di arruolarsi nel corpo femminile dell’esercito e trasferirsi nel Missouri. La sua carriera militare non decollò ed Evelyn sfogò la sua rabbia addirittura bruciando la sua uniforme. Abbandonato l’esercito, approdò a New York dove trovò un impiego come contabile.

E’ in quel periodo che incontra un ragazzo universitario che studia in un college a Easton, in Pennsylvania, dopo un passato presso la United States Army Air Forc. I due ragazzi si fidanzano. Una vita semplice quella di Evelyn, normale, identica a quella di migliaia di ragazze: senza vizi, né preoccupazioni di sorta. La stessa relazione con Barry Rhodes, sembra procedere a gonfie vele, tanto che il 30 aprile del 1947 Evelin prende il treno da New York per recarsi in Pennsylvania, dove ad attenderla c’è trepidante il suo amato fidanzato che ha deciso di rivelarle l’intenzione di sposarla.

Al termine della giornata trascorsa insieme per festeggiare il 24 compleanno di Barry, lui  l’accompagna alla stazione, dove Evelin riprende il treno che l’avrebbe riportata a casa. Si salutano come al solito e lei sale sul mezzo, che parte poco dopo diretto alla volta di New York.

Questa sarà l’ultima volta che Barry la vede viva; ricorderà così quel giorno: “Quando l’ho baciata per salutarla, era felice e normale come qualsiasi ragazza in procinto di sposarsi.”

Il giorno successivo, alle 10.30 Evelyn sale sulla terrazza panoramica dell’Empire State Building, piega con cura il soprabito e lo lascia in un angolo insieme a una borsetta per il trucco, alcune foto di famiglia e un taccuino nero, e scrive alcune righe su un foglio di carta.

A ventitré anni, il 1 maggio 1947, Eveline decide di gettarsi dall’86esimo dell’allora grattacielo più alto del mondo e simbolo di New York, ponendo drammaticamente fine alla sua vita.

Sulla 33ima strada, quella mattina era calma e tranquilla, la gente cammina frettolosa dirigendosi ognuno verso la propria destinazione, quando, davanti all’Empire State Building, si udì il suono di lamiere contorte e vetri infranti. La gente guardò verso la strada, immaginando di vedere un incidente, invece l’attenzione di tutti fu attirata da una limousine scura, parcheggiata sotto l’Empire Stata Building, e sul suo tetto, che appariva sfondato, il corpo, intatto, di una donna piovuta dal cielo.

Robert Wiles, allievo fotografo che passava di lì, sentito il tonfo esplosivo, dopo appena quattro minuti, immortalò in una foto che lo rese celebre la grazia, la bellezza e la compostezza della morte violenta di questa infelice ragazza.

Il cadavere di Evelin non presentava alcun segno tipico da impatto: sembrava essersi adagiato sull’auto, tanto che la ragazza, per la compostezza del corpo e l’assenza di lesioni evidenti, pareva dormisse. Il suo aspetto era incredibilmente intatto dopo un volo di 86 piani, il suo corpo, appena sgualcito, sembra coricato in un sonno senza respiro, sulle lamiere sfondate e contorte della limousine. Un poliziotto che dirigeva il traffico all’incrocio tra la Thirty-fourth Street e la Fifth Avenue, notò una sciarpa bianca scendere vorticosamente dai piani alti del grattacielo.

Tra gli oggetti rinvenuti fu trovato un biglietto indirizzato al fidanzato Barry: “Vivrai meglio senza di me, non sarei una brava moglie per nessuno…”.

Dopo quello scatto, Evelyn è passata alla storia come “la suicida più bella”, un affermazione paradossale perché il suicidio non è mai una bella cosa.

Sicuramente, l’immagine di Evelyn morta, in una bellezza quasi inverosimile per una persona gettatasi dall’86esimo piano di un grattacielo, non è passata inosservata. Diventò quasi un’icona, tanto che Andy Warhol se ne servì per riprodurla innumerevoli volte, com’è nel suo stile, nella sua famosa “Fallen Body”, una tra i quadri della serie “Death and Disaster”.

Ma cosa spinse una giovane donna, nel fiore dell’età, in procinto di sposarsi, a suicidarsi?

Nessun potrà mai, purtroppo, rispondere a queste domande. Altre ragazze, dopo Evelyn, si tolsero la vita gettandosi dall’Empire State Building, migliaia di ragazze ancora oggi si suicidano ogni giorno.

Tra queste Antonella, una ragazza sensibile, bisognosa d’amore, intelligente e determinata a portare avanti la sua lotta da sola, che il 28 novembre dell’anno scorso ha deciso di lasciarsi andare dal terrazzo di un palazzo in via Ciasca, a Bari.

A distanza di cinque mesi i suoi genitori in una lettera pubblicata su Facebook hanno riflettuto su quanto accaduto e sul malessere che affliggeva Antonella, chiedendo aiuto per portare avanti un progetto contro la depressione di cui non bisogna vergognarsi di parlarne.

Uno stato emotivo, da non sottovalutare, anche a soli 13 anni.

Perciò, hanno pensato hanno di lanciare un appello e istituire un premio, rivolto ai giovani adolescenti centrato sulla lotta ai pregiudizi, e sulla accettazione del “diverso” che darebbe loro l’opportunità di parlare della storia di Antonella e di ricordarla, e ai ragazzi di esprimersi e di riflettere su questo argomento cruciale, anche attraverso corsi per docenti, momenti di sensibilizzazione per tutti, attraverso i canali “ufficiali” della scuola.

Ho voluto raccontarvi di Evelin e di Antonella perché  questo “male oscuro”,  che secondo alcuni studi avrebbe ereditato dai geni dell’uomo di Neanderthal, è diventato oggi la malattia più temuta da un italiano su tre, una condizione è cresciuta di quasi il 20% in dieci anni.

Secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a soffrirne sono ben 322 milioni di persone, pari al 4,4% della popolazione mondiale, con un’incidenza maggiore tra le donne rispetto agli uomini.

L’adolescenza, si sa, è un momento di passaggio cruciale: un periodo di profondi cambiamenti, di grandi conquiste e -al tempo stesso- un’età molto pericolosa. Soprattutto per le ragazze. Ogni giorno circa 3mila ragazzi e ragazze di età compresa tra i 10 e i 19 anni perdono la vita.

La seconda causa di morte tra le ragazze è proprio il suicidio. Il bullismo e la disuguaglianza di genere può, infatti, aumentare la vulnerabilità delle ragazze alla depressione, all’autolesionismo e al suicidio.

E’ noto che le vittime di bullismo rischiano di sviluppare disturbi d’ansia, depressione e pensieri suicidi da adulti, mentre la discriminazione impone  queste giovani donne con forza di conformarsi a quegli stereotipi di genere e a quelle norme di comportamento che vengono loro richieste dalla società: sposarsi, avere figli e prendersi cura della casa. Pressioni che possono andare a configgere con sogni e ambizioni personali legate allo studio, alla ricerca di un lavoro qualificato, alla realizzazione dei propri sogni.

Quella foto di Evelin e l’appello accorato dei familiari di Antonella dovrebbe far riflettere tutti noi.

 

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo