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Bye bye bikini

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di LAURA FANO

Sulla scia delle campagne #MeToo#TimesUp, che miravano a scoraggiare gli abusi sessuali e incoraggiare l’inclusività e l’uguaglianza di genere,

 

l’organizzazione di Miss America del 2019, il più antico concorso di bellezza a stelle e strisce, qualche giorno fa ha fatto un annuncio rivoluzionario, dichiarando che le 51 donne che rappresentano i loro Stati d’origine e il distretto di Columbia non saranno più giudicate in base all’aspetto fisico.

“Non siamo più uno spettacolo. Miss America rappresenterà una nuova generazione di leader femminili incentrate sulla borsa di studio, l’impatto sociale, il talento e l’empowerment “, ha affermato Gretchen Carlson, presidente del consiglio di amministrazione.

La nuova missione di Miss America è “preparare grandi donne per il mondo e preparare il mondo a grandi donne’, ha detto Regina Hopper; motivo per il quale il prossimo settembre al posto del segmento dei costumi da bagno, ci saranno le interviste con le contendenti.

“Non siamo più una parata”, siamo una competizione”; e giù un bel taglio anche all’abito da sera pure bandito dalle passerelle.

Eppure la storia di Miss America è iniziata proprio come una gara di costumi da bagno ad Atlantic City nel 1921 quando, piano piano si cominciava a guadagnare qualche centimetro in meno rispetto ai mutandoni e corsetto indossati dalle donne a metà dell’800.

Dall’abito da bagno al bikini, il costume da bagno ha vissuto cambiamenti sempre più rapidi e audaci e la sua evoluzione è stata direttamente proporzionale ai centimetri di stoffa che decennio dopo decennio sono stati ridotti.

E se pensate che quel bikini sia un costume della società moderna-contemporanea, vi sbagliate di grosso: la prima apparizione di questo succinto indumento è in Italia, durante il tardo periodo imperiale romano, e serviva per praticare lo sport e, in particolar modo, l’atletica. Memoria rimasta indelebile nel mosaico della Villa Romana di Piazza Armerina; anche se poi passeranno secoli prima che si arrivi alla storia del bikini che noi tutti conosciamo.

Sarà, infatti, il sarto francese Louis Réard a dar vita, nel 1946, a uno dei capi più rivoluzionari del secolo scorso. Consapevole degli effetti esplosivi e dirompenti del “due pezzi”, tanto da attribuirgli lo stesso nome dell’atollo nelle Isole Marshall, nel quale negli stessi anni gli Stati Uniti conducevano test nucleari, fece del bikini molto molto più di un semplice indumento: divenne un simbolo della libertà al femminile.

La prima a indossarlo fu una ballerina-spogliarellista che scandalizzò i benpensanti dell’epoca: Micheline Bernardini al Casinò de Paris per uno spettacolo a bordo piscina al Molitor. A portarlo poi alla popolarità, Brigitte Bardot nel film The Girl in the Bikini.

E’ buffo pensare che la sua storia abbia avuto inizio per un mero problema economico: con la guerra i materiali tessili servivano per le uniformi miliari e nel 1943 il governo statunitense ordinò una riduzione del 10% dei materiali usati per confezionare costumi femminili.

La beat generation lo adotterà, guarda caso, come simbolo di ribellione per denunciare lo status sociale subordinato della donna nei confronti degli uomini. Dagli anni ’60 l’ascesa del bikini: sempre più indossato in spiaggia anche dalle dive e attrici del passato come Jane Birkin e Goldie Hawn. Marilyn Monroe, l’attrice inglese Joan Collins, Raquel Welch, il sex symbol Jayne Mansfield, Ursula Andress, Natalie Wood e Ava Gardner, passando per le nostrane Gina Lollobrigida e Stefania Sandrelli, Lucia Bosè, Gianna Maria Canale, ed Eleonora Rossi Drago, immortalate in tutta la loro bellezza.

Il “due pezzi” si imporrà anche sulle passerelle, diventando di fatto protagonista delle collezioni primavera estate di stilisti internazionali fino ai giorni nostri.

Fu dunque un uomo a dare il potere alle donne di essere per la prima volta davvero padrone del proprio corpo, sicure del proprio status, libere di mostrare lembi di pelle per diletto e non necessariamente per seduzione.

C’è, infatti, un momento dell’anno che ogni donna attende con ansia, quello in cui finalmente potrà stendersi al sole di una calda spiaggia con indosso il suo costume da bagno preferito, quello che la fa sentire splendida, padrona del proprio corpo, e soprattutto libera e che, in barba ai perbenisti e moralisti del dopoguerra, è diventato portavoce dell’autodeterminazione dell’io femminile e femminista fino a quando c’è stato bisogno di scriverlo sulle magliette.

Oggi paradossalmente in America il bikini, simbolo di quell’ emancipazione femminile, viene messo al bando in nome del sessismo, rivendicando, con l’annuncio ipocritamente moralistico della Carson, l’uguaglianza di genere, come se bastasse coprirci a un concorso per raggiungere la parità dei diritti!

Frattanto, in attesa di settembre, milioni di donne che evidentemente non hanno da farsi perdonare la capacità di conciliare bellezza e intelligenza, saranno libere di sfoggiare sulle passerelle  delle spiagge assolate nei prossimi mesi l’ultimo costume di grido, senza essere costrette a bardarsi per dimostrare di essere pronte per il mondo…

 

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo