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Il latino e il greco per risalire alle nostre radici

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di MARIAPIA METALLO

A che serve apprendere lingue come il latino e il greco nel mondo globalizzato da internet e dall’inglese?

 

Non sarebbe meglio studiare una lingua straniera? Domande ricorrenti…

I mass media propongono sondaggi, annunciano con toni apocalittici l’ormai prossima sentenza di morte di tali insegnamenti a seguito di riforme che dovrebbero orientare la preparazione scolastica alla formazione di cittadini adatti ad affrontare la realtà globalizzata, informatizzata, tecnologizzata, omologata del mondo attuale. Così nella mentalità corrente pare una perdita di tempo lo scervellarsi dei nostri poveri ragazzi, nello studio mnemonico di declinazioni e coniugazioni, nell’analisi di regole e costrutti di lingue considerate “morte”, nella traduzione di testi ormai indecifrabili e dunque incomprensibili… Ormai altri sarebbero gli strumenti per esercitare i nostri ragazzi al fine di acquisire capacità e competenze generali e trasversali da impiegarsi nella società industrializzata e commercializzata di cui fanno parte e di cui devono sentirsi elementi attivi come consumatori e attori: l’uso febbrile dei cellulari sempre più complessi sempre più somiglianti a piccoli e versatili computer, i quali, questi ultimi, rappresentano l’altro strumento di formazione e di interazione che i nostri studenti hanno a disposizione, insieme alla televisione, sempre più invadente con gli enormi schermi a parete, e onnipresente poiché assimilata agli stessi computer e telefonini.
Negli ultimi anni ,si registra la sempre maggiore disaffezione che questo clima induce negli studenti, come la difficoltà sempre maggiore degli stessi ad affrontare la traduzione dal latino e dal greco, vista come una pratica inutile, avulsa rispetto alle esigenze evidenziate dagli altri enti formativi ed imposte dalla quotidianità (“meglio dedicarsi allo studio della lingua inglese o dell’informatica…”). Il dato importante, su cui vale la pena di riflettere è che il problema vissuto da questa generazione di studenti non è solo di natura motivazionale, ma anche di risorse personali, mentali e strutturali su cui possono contare sempre meno perché la loro formazione extrascolastica, e sotto certi aspetti anche scolastica, condizionata dalla pratica degli strumenti formativi e di comunicazione di cui sopra, e dai valori proposti da famiglie e società, probabilmente non le alimenta. Purtroppo è sempre più difficile ottenere lo studio tra il mnemonico e il ragionato delle declinazioni e delle coniugazioni e il rigore, la precisione nel loro utilizzo: ogni errore non pare definitivo, né cruciale: l’approssimazione o l’idea dell’effimera valenza di ciò che può comunque essere in qualche modo corretto prevalgono; nella pratica della traduzione spesso gli studenti si arrendono di fronte a problemi o difficoltà quasi inesistenti, dopo pochissimi tentativi invocano perentoriamente aiuto: l’atteggiamento che emerge è quello di un disorientamento nel tentativo, chiaramente vano, di trovare un aiuto all’esterno di sé, in uno strumento (internet, cellulare, calcolatrice…) facile e istantaneo, quando esso deve essere invece cercato in se stessi, nelle proprie conoscenze, nella propria intuizione, nella propria autonomia di ragionamento, perché no, nella propria creatività. Infine, spesso è rendere il senso utilizzando la lingua italiana a creare difficoltà: l’analisi del significato, il senso delle sfumature, le differenze tra i sinonimi, il tono generale, la rispondenza a uno stile sono considerati, dai più, dettagli desueti ed inutili. La tendenza è verso la semplificazione e l’approssimazione, conseguenza questa, probabilmente, dell’impoverimento del linguaggio indotto dai moderni mezzi di comunicazione, e forse dai ritmi di vita attuali, e spesso denunciato da linguisti e intellettuali.

Ma proprio da queste riflessioni è possibile evincere motivazioni a sostegno dello studio di queste lingue.
Studiarle non significa infatti solo imparare mnemonicamente regole o applicarle meccanicamente in costrutti astratti, né esercitarsi in pratiche vetuste e inutili, ma significa, attraverso l’antico sistema morfosintattico della lingua, risalire alle radici di ciò che siamo, capire attraverso quali meccanismi razionali abbiamo rappresentato e rappresentiamo, attraverso quale sensibilità abbiamo interpretato e interpretiamo, attraverso quali percorsi abbiamo dato e diamo forma alle percezioni, alle rappresentazioni, alle sensazioni e a tutto ciò che elaboriamo con i sensi, con la mente e con il cuore. Significa, attraverso la traduzione e l’analisi di una lingua che è matrice originaria della propria, addestrarsi a risolvere problemi complessi in astratto e nella pratica: utilizzando conoscenze di regole e usi, intuizione, creatività, fantasia, criticità. Significa riflettere sulla nostra lingua attuale, sulle piccole variazioni e oscillazioni dei significati e delle rappresentazioni che danno consistenza, attraverso la parola, a ciò che senza di essa non esisterebbe, perché non percepibile o non comunicabile. E questo ancor più è importante oggi, quando attraverso la concentrazione e la semplificazione del linguaggio imposto dagli sms, dalle e-mail rischiamo di trascurare completamente il dettaglio, la sfumatura, il particolare più profondo che mette in luce la differenza tra l’io e l’altro, che fa emergere l’originalità, la verità al di là dell’omologazione e della categorizzazione a cui massificazione e globalizzazione di costumi e cultura ci dirigono, troppo spesso impoverendo la nostra capacità di analisi, la nostra criticità, la nostra capacità di comprendere noi stessi, gli altri e il senso di ciò che facciamo, che scegliamo, che desideriamo.

 

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo