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Turi, 20 braccianti avvelenate

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di NICO CATALANO

Intossicate mentre lavoravano sotto un tendone di uva da tavola a Turi in provincia di Bari, è accaduto martedì scorso a venti braccianti agricole originarie della provincia di Brindisi. Le donne colte da forti dolori alla gola, tosse persistente e intensa nausea sono state subito soccorse dalle ambulanze del 118 e trasportate presso gli ospedali di Putignano, Monopoli e Acquaviva delle Fonti dove sono state ricoverate in prognosi riservata. Tra le cause del malore si sospettano sia l’effetto “deriva” dovuto per un insetticida utilizzato in qualche vigneto confinante, così come la stanchezza e lo stress a cui le donne sono sottoposte ogni giorno, un lungo viaggio dai loro paesi di residenza nell’alto Salento per raggiungere il posto di lavoro, tragitto reso ancora più duro dall’afa agostana pugliese.


Un sistema insostenibile per  tanti punti di vista, quello della coltivazione dell’uva da tavola in questa porzione della puglia, con i coltivatori, sempre più strozzati dalla GDO che impone loro prezzi e sempre più improponibili protocolli di produzione che richiedono cospicui imput energetici in primis acqua e fertilità del suolo, fattori produttivi che oltre ad essere dispendiosi economicamente sono inopportuni ecologicamente in quanto, proprio qualche giorno fa la FAO dichiarava come nel prossimo decennio cospicue fasce dell’umanità non avranno più accesso  all’acqua per i bisogni primari. Un modello insostenibile per l’ambiente e la salute dell’uomo, infatti secondo l’ultimo “Rapporto Pesticidi” di Legambiente, gran parte delle acque superficiali pugliesi campionate da ARPA puglia presentano elevati residui di diversi principi attivi di sintesi utilizzati come diserbanti, fungicidi e insetticidi tra cui quel Clorpirifos, un composto organofosforico largamente utilizzato in viticoltura da tavola intensiva. Questo insetticida secondo L’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) “non soddisferebbe i criteri previsti dalla legislazione per il rinnovo della sua autorizzazione all’uso nell’Unione Europea nel gennaio 2020” in quanto ritenuto responsabile come “interferente endocrino” di numerosi disturbi genotossici e neurologici riscontrati su neonati e bambini, tutti effetti palesati da dati epidemiologici.

In una regione in cui la formazione per gli agricoltori è ancora una chimera, i quali risultano sempre meno informati sulle nuove opportunità rappresentate dall’agricoltura sostenibile, multifunzionale e sociale, mentre la ricerca nel settore primario stenta a concepire modelli alternativi al convenzionale, rispettosi dell’ambiente, dell’uomo lavoratore e consumatore. Proprio a Turi, è presente una sezione del CREA che si occupa di viticoltura, l’Ente di Ricerca Ministeriale, negli scorsi anni ha incentrato la sua lodevole attività sulla selezione di nuove varietà di uva da tavola apirene (senza semi) geneticamente originarie di altri areali e quindi conseguentemente bisognose di elevate quantità di imput agronomici ed energetici, una linea di ricerca non proprio al passo con i tempi e con la razionalità, che purtroppo ha visto impegnate risorse pubbliche.

Tutto questo, in una Puglia dove la politica manca di incisività, da tempo l’associazione AIAB (Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica) peraltro l’unica rappresentativa del mondo bio per titolarità e numeri, chiede inascoltata alla Regione Puglia di partecipare ai tavoli del partenariato strategico del PSR come avviene in tutte le altre Regioni, proprio per concertare un’azione nelle campagne mirata al rispetto ambientale e sanitario. Mentre i “comitati per le pari opportunità” impegnati nel chiedere giustamente “quote di genere” o “pari rappresentanza nei vari organismi” hanno dimenticato l’esistenza in agricoltura sia dei salari differenziali tra uomo e donna, geograficamente differenti tra le lavoratrici salentine meno pagate rispetto a quelle delle altre provincie. Un fenomeno che causa lunghi e faticosi viaggi a cui sono quotidianamente sottoposte le lavoratrici del sud della Puglia per recarsi a lavorare nel barese o nell’arco Jonico in virtù del loro più “conveniente ingaggio” rispetto a quello delle locali.

Sono passati oltre 4 anni da quel tragico 13 luglio 2015, giorno in cui, Paola Clemente bracciante di San Giorgio Jonico moriva di caldo e stenti nelle campagne di Andria, dove dopo lunghe ore di viaggio si recava ogni giorno per lavorare sotto i tendoni. Da allora il tempo si è fermato, alle tante belle parole nulla è seguito di concreto, continua ad essere presente in questa regione un sistema insicuro e insostenibile per gli stessi coltivatori, l’ambiente, l’ecologia dei luoghi, la salute di lavoratori e consumatori, sarebbe ora di cominciare una seria inversione di tendenza.

Fonte della foto : La Gazzetta del Mezzogiorno

 

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo