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“Eppur si muove”, il Pd è clinicamente morto?

Sono giorni duri. Non solo per i cittadini onesti con Carlo Nordio al ministero della Giustizia, ma soprattutto per gli elettori di sinistra per via delle primarie del Pd.

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Credit foto Pixabay, dominio pubblico

di Alessandro Andrea Argeri

“Non mi fido più. Non è più un partito di sinistra”. Questo il risultato di una conversazione tra amici. Studenti, lavoratori, cittadini di periferia, abitanti del mondo reale. L’argomento? Le interminabili elezioni del segretario del Partito Democratico purtroppo ormai solo di nome.

Da ben prima del 25 settembre 2022 noi de ilsudest ripetevano di una crisi d’identità del Pd. Il partito si aggira tra Ong fittizie create apposta per mascherare gli interessi di lobby pseudo umanitarie; si innamora del primo Soumahoro di turno solo perché è di pelle nera; non solo evita di opporsi alle pericolose iniziative del ministro della giustizia ma persino si carica sulle spalle le istanze di terroristi, mafiosi, criminali finiti al 41-bis. A momenti elegge alla segreteria Elly Schlein, la quale vorrebbe salvare il mondo “con un pollo di gomma con carrucola”; si butta in proteste inesistenti per diritti mai ben definiti come se da quelli dipendesse il futuro del Paese.

Quando poi il Partito Democratico si accorge di non essere più di sinistra, subito prova a riportare in vita lo stalinismo, senza considerare i crimini della dittatura sovietica, o la storia del socialismo italiano, l’unico ad opporsi ai crimini di Stalin nella speranza di una rivoluzione operaria democratica. Persino Fedez, l’attivista delle proteste monetizzabili, o Rosa Chemical, il cantante recentemente attaccato da Fratelli d’Italia per “propaganda gender”, sono stati più politicamente attivi del Pd. Insomma se questo è un partito di sinistra Amadeus non ha mai condotto Sanremo.

Alle elezioni il Pd si era rassegnato alla sconfitta ancor prima di iniziare la campagna elettorale. Crede di non aver vinto le elezioni per aver governato, quando in realtà è stato bocciato per mancanza di idee. Forse proprio per questo ha lavorato molto bene per perdere. Mai visto uno schieramento avvantaggiare così tanto l’avversario. Se non si trattasse di un partito incapace di dare segni di vita applaudiremmo a uno straordinario esempio di fair play. Perché se i democratici si sono autodistrutti, di certo la colpa non è della destra.

Il Congresso del Partito Democratico doveva essere una rinascita. Per poco non diventa un’altra sconfitta. Era diventato un dramma in cinque atti pure la scrittura del nuovo manifesto. Prima di parlare di “costituente” sarebbe stato bello riscoprire un po’ d’orgoglio di partito proprio per rispetto del ruolo dei partiti nel sistema democratico del Paese.

I rappresentanti di questa sinistra sono rissosi, sempre pronti alla scissione, divisi su tutto. Si sono vantati di una presunta superiorità morale, dopodiché è scoppiato il “Qatargate” a ricordare loro di essere dei comuni mortali. Parlano di “comunità di uguali” capace di scegliere liberamente i propri capi, poi dimostrano di esserne sudditi nel momento in cui saltano fuori le “correnti di Tizio”, “l’area di Caio”, “i sostenitori di Sempronio”.

Ancora, le regole interne sono sacre, ma vengono cambiate non appena i capi delle correnti si accordano. Rivendicano di agire da partito perché sul simbolo non c’è il nome di un segretario, anche se questo non l’hanno ancora eletto. Difendono il reddito di cittadinanza, sebbene avessero votato contro. Sono contro il Jobs Act e il Rosatellum, due leggi approvate proprio dal Pd. È vero: era dieci anni fa, il segretario era Renzi. Però da quel 2014 la classe dirigente del partito è rimasta praticamente la stessa.

Quale rinnovamento c’è quindi dietro al nuovo segretario? L’impressione è di vedere ogni volta un front-man a schermare quanto c’è dietro, ovvero tutto il vecchio. La vita del partito si è ridotta a una lotta interna perpetua il cui unico obiettivo è la sopravvivenza dei singoli anche al costo del bene comune. In tutto questo sempre più militanti si lamentano di essere allo sbando, lasciati soli, disorganizzati, con l’impressione di essere solo “soldatini occasionali”.

La politica deve partire dal popolo, non dalla casta. Rispetto a sessant’anni fa l’elettorato è sceso a poco più del 60% degli aventi diritto, mentre gli iscritti ai partiti sono appena il 2% della popolazione. Quando le compagini politiche erano associazioni ramificate nella società, gli aderenti si aggiravano stabilmente attorno all’8% degli aventi diritto di voto. Le organizzazioni erano complesse, non semplici comitati elettorali prigionieri della personalizzazione del potere. Se si ascoltassero i militanti locali si capirebbe la necessità di essere presenti sui territori, di rivivificare le sedi territoriali, di dare sostegno materiale ai poveri per potersi definire “di sinistra”.

La soluzione per il Pd sarebbe quindi quella di tornare in quei luoghi da cui è lontano da tempo, perché la società non è disinteressata alla politica, bensì è quest’ultima a non rivolgersi ai cittadini, o a non essere abbastanza “appetitosa” per via della debolezza delle proposte, dell’imposizione di candidati scelti dall’alto, del mancato “turnover” dei rappresentanti.

La sfida doveva essere contro il centrodestra, invece è ancora una volta contro le correnti della stessa sinistra. Il nuovo segretario dovrà riuscire nell’impresa di tenerle insieme. Indipendentemente chi verrà dopo Letta, l’impresa sarà mantenere l’identità, oltre che l’unità.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).